Giorgia Meloni, schiaffo al femminismo di sinistra: nominata capo di un europartito
Se non ora, quando? Una donna leader di un partito italiano per la prima volta. Una donna italiana presidente di un partito europeo per la prima volta. Una donna italiana al vertice delle gerarchie internazionali di tutta un'area politico-culturale, per la prima volta. «Se non ora, quando?» era l'amazzone grido di battaglia delle femministe del nuovo millennio, costituitesi in movimento progressista e arcobaleno, contro il rozzo maschilismo della destra italica, già fascista, poi berlusconiana, quindi sovranista. Infatti, accade ora. Una donna scala la parete scoscesa della politica nazionale e continentale ora, non più negli auspici all'aperitivo pariolino delle neosuffragette chic, ma nella realtà dei ruoli e dei rapporti di potere. Solo che, e prevediamo un'impennata del consumo di alcolici ai suddetti apertivi, questo evento epocale nelle cronache tricolori accade dall'altra parte. Dalla parte dei reazionari, dei bavosi, dei retrogradi. Giorgia Meloni è stata eletta all'unanimità presidente (tranquilla Giorgia, qui non cederemo mai al boldriniano e offensivo "presidenta") del Partito dei Conservatori e Riformisti Europei. Si tratta del terzo gruppo nell'aula di Strasburgo. È il movimento che custodisce la grande eredità euroscettica e liberista thatcheriana, contro gli utili idioti del liberalismo attualmente inginocchiati ai piedi del Soviet eurocratico di Frau Ursula (anche se ha perso i Tories britannici causa Brexit). Ma è anche il gruppo che ospita fenomeni politici in ascesa come Diritto e Giustizia, al governo in Polonia con un'agenda cristiano-conservatrice e filoatlantista, o Vox, oggi terzo partito in Spagna, che coniuga nazionalismo identitario e liberismo economico. Nonché, tassello ancor più significativo, è il raggruppamento che detiene i canali preferenziali con i riferimenti extra-europei della destra occidentale, dal Partito Repubblicano americano al Likud israeliano.
Ce n'è abbastanza per creare ettolitri di bile nel corpaccione del femminismo nostrano, quello che per intenderci giocava con Michela Murgia al "fascistometro" su L'Espresso, caricaturizzando la destra che non c'è più (e da un pezzo, da ben prima che Giorgia Meloni nascesse, se vogliamo stare alla storia piuttosto che alla propaganda), mentre la destra che c'è portava una donna alla vetta di un partito, di un eurogruppo, di un network globale. Essì, care virago della gauche (sempre ridotte a innocue dame di compagnia, visto che non c'è partito o partitino o club dopolavoristico di sinistra che sia guidato da una di voi, anzi l'ultrarosso Liberi e Uguali è quello con minor rappresentanza femminile in Parlamento), questo è ciò che è successo. Voi, per stare allo stupidario politicamente corretto recente, v' indignavate perché al Festival della Bellezza di Verona erano previste solo due signore ospiti, al punto di organizzare un contro-festival. Imprescindibile, dal momento che, come scandiva la starlette radiofonica del femminismo 2.0 Giulia Blasi «spesso le trasmissioni televisive vanno un po' a cavallo tra una forma di liberazione e una rappresentazione della sudditanza totale della donna rispetto al paradigma di stereotipi patriarcali». Mentre, come se fosse antani, vi esercitavate in supercazzole sessantottarde del genere, lei, Giorgia, stringeva alleanze, aggiornava programmi, presidiava valori. Confermando uno degli immortali aforismi di Margaret Thatcher: «Essere potenti è come essere una donna. Se hai bisogno di dimostrarlo vuol dire che non lo sei». Al massimo, sei una femminista, ma è tutt' altra e ben poca cosa.