Vittorio Feltri, donne, uomini e differenza salariale. L'amara verità: "Non basta una leggina"
Torna d'attualità l'idea di detassare il lavoro femminile allo scopo di renderlo remunerativo quanto quello maschile. Difficile essere contrari a un abbassamento delle imposte, che da anni sono troppo gravose per qualunque dipendente. Quindi saremmo contenti qualora il progetto di diminuire i tributi a carico delle signore si concretizzasse. I promotori del quale per giustificare la loro iniziativa, per adesso soltanto teorica, affermano che in generale le donne guadagnano meno degli uomini. Il che però non è vero, come si evince dal fatto che i contratti nazionali di ogni categoria, che si applichino a lui o a lei, sono gli stessi. Questa non è una opinione bensì la descrizione della realtà, agevolmente dimostrabile. Prendiamo gli insegnanti, tutti incassano il medesimo stipendio, a prescindere dal sesso. Senza dubbio la paga è molto bassa, inadeguata per i docenti. Eppure è falso dire che nella scuola i maestri e i professori percepiscano più soldi delle maestre e delle professoresse. A parità di ruolo la remunerazione è identica. Lo stesso vale per i giornalisti, per i bancari, gli impiegati pubblici e privati, le forze armate, eccetera. L'appiattimento retributivo esiste da anni e non si può sostenere, per esempio, che una redattrice di Libero sia peggio compensata di un redattore.
Ripeto, i contratti collettivi non distinguono fra un genere e l'altro. Se si detassasse il salario delle donne, e non degli uomini, si penalizzerebbero i secondi, che a fine mese avrebbero una busta più leggera, un assegno inferiore. Quindi non capisco il senso di questa battaglia. Naturalmente nel settore privato il padrone dell'azienda ha facoltà di dare a me più quattrini di quanti ne dia a una mia collega, tuttavia le scelte di un imprenditore in questo campo non soggiaciono ai contratti collettivi. Se io tutelo meglio gli interessi della ditta rispetto a madame è ovvio che il titolare mi riconosca un premio. Il che succede spesso per un semplice motivo. Se la lavoratrice è sposata e ha figli, è molto impegnata negli affari domestici e nell'accudimento della prole, mentre di norma il marito si dedica più al lavoro che alle faccende casalinghe. È pure un problema di costume. Le femmine sono geneticamente portate a impegnarsi anima e core per la famiglia, mentre i maschi, quando rientrano dall'ufficio dopo una giornata alla scrivania, si sprofondano in poltrona e leggono la Gazzetta dello Sport. Cambiare la mentalità si può e si deve, però ciò richiede tempo e specialmente tanta buona volontà da parte di entrambi i coniugi. Una operazione lunga e di non facile attuazione. Anche per via di altre considerazioni. Se una dipendente legittimamente partorisce e si allontana dal lavoro per un anno, ovvio che il capo dell'opificio o dell'ufficio sia costretto a sostituirla con un rincalzo e, allorché ella rientra dalla maternità, è svantaggiata rispetto a coloro che non si sono assentati. Non basta una leggina per annullare le diversità sociali e professionali. L'organizzazione dell'umanità deve favorire la parificazione, ma ottenerla non è un gioco da deputati sprovveduti.