Vittorio Feltri sull'alcolismo in Italia: "Bacco è il più grande amico e il più grande assassino"
Qui di seguito pubblichiamo un articolo scritto dal direttore Vittorio Feltri negli anni Ottanta sugli italiani grandi produttori di vino ma anche grandi bevitori.
Gli italiani potranno forse morire di freddo o di fame, ma non moriranno mai di sete. Li salva il vino, di cui sono grandi produttori e grandissimi bevitori. E il whisky, di cui sono i maggiori importatori d'Europa. Non avremo l'umorismo sottile degli inglesi, ma siamo i più ricchi di spirito. Anche dei francesi che fino a qualche anno fa detenevano il primato mondiale del brindisi. Se i "militi" e i fiancheggiatori delle Brigate rosse - secondo le stime dei servizi segreti - sono oltre cento mila, gli acquirenti del rosso di Puglia sono almeno cinque milioni; e se la terza via al socialismo è tortuosa, la via del bianco è più praticata della Roma-Ostia. Le statistiche più aggiornate, elaborate dal professor Cancrini dell'università di Roma, sono - è il caso di dirlo - da capogiro: 600 mila alcolizzati. Bevono e respirano, non fanno altro. Nelle retroguardie dell'etilismo c'è poi un esercito di candidati alla fase acuta: tre milioni e mezzo di bevitori abituali e destinati a uscire presto dalla trincea delle bottiglie per passare alle ampolle dell'ipodermoclisi. Dovranno battersi contro la cirrosi epatica che avanza a vele spiegate su un mare di alcol: dal 1960 a oggi è aumentata del 140 per cento: 50 decessi all'anno per ogni centomila abitanti. Dal 1958 al 1978 i ricoveri in manicomio sono cresciuti del 310 per cento fra le donne, del 299 fra gli uomini da 30 a 49 anni. E i ricoveri in ospedale, mediamente, del 130 per cento. E poi dicono della droga.
Ma per la maggior parte degli italiani l'eroina rimane la moglie di Garibaldi, e la ricerca dei paradisi artificiali non si svolge tanto nella siringa quanto nel fondo della bottiglia. Si muore più di mezzolitro che di cucchiaino, i bicchierini di troppo uccidono mille volte di più che l'eroina. La dose può ammazzare sul colpo, il fiasco toglie la vita a piccoli sorsi. Il calvario dell'alcolista di solito è molto lungo, venti o trent' anni di singhiozzo prima di esalare l'ultima zaffata. Venti o trent' anni vissuti nell'ansia e contro l'ansia: gli alcolisti bevono per farsela passare, ma l'effetto tranquillante dello spirito dura poco e in misura diversamente proporzionale al grado di alcolismo. È come una tortura: giù vino e su sete. Eppure tutti parlano con angoscia del problema droga, ma nessuno o pochi si preoccupano della sbronza. Mentre sociologi, psicologi, medici e ministri alzano gli scudi contro il pericolo del "buco", milioni di italiani alzano il gomito convinti che non faccia male. Anzi, sono incoraggiati a tracannare sempre di più da una serie di luoghi comuni sulle presunte qualità terapeutiche del sorso. E dalla pubblicità addirittura ossessiva.
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L'ATMOSFERA
L'amaro che ci trasforma in Superman, l'aperitivo che ci salva dai guai della giornata, il liquorino che dilata le coronarie, l'atmosfera, e giù con le immagini suggestionanti: distinto quarantenne brizzolato che porge una coppetta di un certo liquore a bellissima bionda; sorriso condiscendente di lei che gli accarezza la mano e lo conduce verso la terrazza; una folata di vento che gonfia le tende e, sullo sfondo blu di un mare spumeggiante, la coppia s' abbandona in un lungo abbraccio. Ovviamente, è sottinteso che se il quarantenne brizzolato ce l'ha fatta, il merito è del liquore. E siccome l'istinto imitativo è forte in tutti, i più deboli non appena avranno per le mani una bionda, magari anche bruttina, crederanno che senza cicchetto lei non ci sta. Si comincia così: il primo sorso per vincere l'insicurezza, il secondo per brindare al successo, il terzo per affrontare il capufficio e via di seguito di tappo in tappo finché il pretesto per bere si presenta ogni momento della giornata.
Il bicchierino diventa indispensabile anche per prendere l'ascensore. Qualcuno obietta che la pubblicità non ha alcuna responsabilità in quanto se uno è così indifeso da lasciarsi influenzare da un carosello, sarà stupido da ubriaco quanto da sobrio. Ma certi schematismi sono inapplicabili quando si tratta di valutare i fenomeni di massa: anche blu jeans attillati pare che rendano impotenti e frigide, eppure li indossano interi popoli. Tutti cretini non saranno.
DOLORE DEL VIVERE
la gente beve da sempre, dicono altri. Il vino è civiltà. Sarà, ma un conto è considerarlo un alimento, sia pure stimolante e particolarmente gradevole; un altro è tracannarlo come analgesico del dolore di vivere. Anche i contadini dell'Albero degli zoccoli non disdegnavano il fiasco, ma compariva sul tavolo come il più simpatico dei convitati; raramente sostituiva l'amico o la moglie. Oggi invece, nella società delle tecnologie avanzate, uomini e donne ingoiano alcol senza sorridere: come accade frequentemente di vedere gente in auto che parla da sola a un semaforo rosso, così è facile incontrare al bar persone che si fanno un doppio whisky di fretta, un occhio all'orologio, un altro bicchiere. Già nel 1964, in Italia il consumo pro capite di alcol puro all'anno era di 15 litri; ma questa pur allarmante quantità, in 15 anni si è quasi raddoppiata nonostante gli addetti dell'agricoltura, nel frattempo, si siano dimezzati. È la prova che l'etilismo non è una malattia da zappa. Anzi, è più diffuso al Nord che al Sud: in Lombardia c'è un alcolista su 100 abitanti; in Sicilia e in Calabria, 1 su mille. Il bere si è nevrotizzato, come il fumare: è un gesto ripetitivo, monomaniacale, un rito estenuante e schiavizzante.
Agli inizi degli Anni Trenta, 98 bevitori su 100 erano ultra cinquantenni; solo lo 0.01 per cento era costituito da donne. Adesso, pur nell'approssimazione di statistiche elaborate da singoli studiosi (non esiste in Italia una vera e propria scuola che approfondisca il problema) sembra che almeno la metà degli etilisti sia composta da persone da 20 a 49 anni; un quinto solo donne. Come si spiega il fenomeno? Secondo gli esperti, nelle campagne del Meridione accade ciò che accadeva nel Settentrione fino a mezzo secolo fa: si beve soltanto di domenica e per stare in compagnia, per carburare il buon umore. Se a Guardialfiera uno si sbronza ogni sera, ci mette 15 giorni a diventare lo scemo del villaggio; come spazio vitale gli resta l'osteria, e forse neanche quella. Ma a Milano, Roma o Torino chi ha voglia e tempo di contare le ciucche del vicino? Purché uno lavori ha diritto di buttarsi nello stomaco ciò che vuole.
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La tentazione è dietro l'angolo: alla mensa, al bar aziendale, al ristorante, nel mobiletto-bar ricavato da un mappamondo e collocato al centro del soggiorno. E poi la solitudine, l'insoddisfazione, le frustrazioni. Molti ragazzi si bucano perché la cultura del loro ambiente, in fondo, non respinge la droga, e lasciano stare il bicchiere. Ma la persona matura, consapevole dei rischi e della scomodità dell'eroina, compresi l'alto costo e la difficoltà di procurarsela, preferisce l'amaro, che fra l'altro è inodore. L'effetto inebriante è quasi identico, maggiore è la sopportabilità, più lungo il processo di intossicazione e di assuefazione e, per giunta, nessuno si sogna di guardare male il collega sorpreso al bar col digestivo in mano. Inoltre l'eroina comporta obiettive difficoltà d'uso: toilette, siringa, laccio e spacciatore. Un gran daffare. Per bere bastano 1000 lire, c'è un bar ogni 100 metri. Né mancano le opportunità: chiunque può invitare gente a casa sua per assaggiare, dopo una giornata di lavoro, la tale annata di rosso.
Sarebbe indubbiamente più imbarazzante dire al proprio direttore: «Senta, l'aspetto stasera, per lei ho deciso di tirare fuori quella canapa che mi ha portato mio cugino dall'Afghanistan». Davanti a un ragazzo morto di eroina sul marciapiedi della stazione, tutti provano pena e orrore; se un ubriaco smarrisce la strada o non riesce a infilare la chiave nella toppa, al massimo ti viene da ridere. C'è gente che trema se inciampa in una siringa gettata via dal tossicomane; una bottiglia fa paura solamente se è piena di benzina. È questione di abitudine. Da bambini ci dicevano, dai un sorso, non vedi come sei pallido. Il vino ci faceva schifo, ma ci costringevano a berlo. Da adolescenti ci invitavano a ballare e dietro le bottigliette di Coca Cola c'era il brandy; il più bullo della compagnia se ne faceva un goccio tra un'Esportazione e un'altra, e finivi per provarlo anche tu.
Dava il mal di testa, ma insistevi. Da militare o bevevi o ti rassegnavi agli sfottò. Alcol dappertutto. È naturale che il vino non sia tabù, l'approccio non è traumatico. Se poi il palato è fine e si sanno apprezzare i sapori, bere è un piacere innocuo. Ma è questione di quantità, di misura, di motivazioni. Anche l'alcolista più scatenato ha cominciato per scherzo e nella convinzione di poter smettere quando gli pareva. Probabilmente all'inizio non era il vino che gli piaceva ma Ornella Muti, in mancanza della quale provò a rifarsi con il bianchino d'annata. Al collo della bottiglia avrebbe preferito la mano della ragazza, ma il vino è buon succedaneo, una trappola tremenda che prende soprattutto quelli che temono la realtà e tentano di fuggire. Più sono disperati e più tirano. E più restano invischiati. Nessuno li aiuta: tranne il manicomio, non c'è luogo di cura. Se mancano le strutture per il recupero del drogato, per l'alcolista giunto all'abbruttimento non c'è neanche pietà. Solo derisione e ribrezzo.
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LE SCELTE
In molti casi chi beve è alla ricerca di un affetto, e finisce abbracciato a un lampione. Inutile dire tanto a me non può succedere: chiunque può cadere, le difese che pure ciascuno di noi ha non sono mai sufficienti a scongiurare il pericolo. Può bastare un periodo nero, un insuccesso, un lutto, un momento di solitudine e di disperazione: le bottiglie sono come le ciliegie, una tira l'altra. Non ci protegge nemmeno la legge, gli alcolici sono in vendita ovunque e senza limitazioni, dal supermercato alla salumeria, persino in farmacia. Se crolla la volontà, se vacilla il senso etico sono guai seri. Ventimila italiani all'anno muoiono così, per i danni diretti o indiretti dell'alcol. Quattromila sono donne che, fra l'altro, bevono male: amari, anisette, mandarino e cedro, vermouth. E con rabbia: perché il marito sta troppo fuori casa, perché i figli sono cresciuti e non hanno più bisogno di loro, perché non trovano un lavoro e se lo hanno trovato è stata una delusione. E perché al sesto piano di un condominio di Cinisello, una donna di 45 anni o parla con la radio di quartiere o, per non buttarsi giù, si attacca alla bottiglia. A saperlo prendere, Bacco è un buon amico. Altrimenti è un assassino.