Renato Farina a valanga: "Paolo Mieli? Le dittature democratiche piacciono solo agli ex marxisti"
Con molta calma, e persino qualche civetteria, due tra i capi dell'intellighenzia italiana, Massimo Cacciari e Paolo Mieli, hanno detto che i prossimi mesi saranno quelli dell'avvento di una «dittatura democratica». Essa è inevitabile. Una gabbia impiantata ufficialmente per imprigionare il Covid, peraltro estenuato, in realtà per dotare chi comanda di strumenti repressivi onde mettere agli arresti domiciliari la protesta sociale prevista per il prossimo autunno. Questo potere finirà - o è già finito? - nelle mani di Giuseppe Conte, «il dittatore democratico», una definizione che in passato lo storico Luciano Canfora coniò per Giulio Cesare. Insomma una truffa semantica, un abuso del diritto e della buona fede, un espediente procedurale per tenere a bada qualche eventuale sussulto ribellistico degli italiani sotto il tallone di una classe politica infame. Nessuno dei due è entusiasta di questo rotolare degli eventi. Specialmente Cacciari è sarcastico sulle qualità di questo governo e del suo presidente. Gliene dice di tutti i colori. Però, amen, dittatura democratica sia. Colpisce il fatto che a questa constatazione tremenda non segua alcuna volontà di resistenza, magari non violenta, da parte di questi intellettuali mai banali. Come se si possa accettare tranquillamente la compressione della libertà, che in fondo è l'essenza, nel senso di profumo, della vita comune e singola di questo occidente.
ASSUEFAZIONE IDEOLOGICA
Quell'essenza a cui sono allergici i regimi totalitari che incombono su di noi nell'oscurità della geopolitica. Il tutto è accaduto a Cartabianca, la trasmissione della Rai condotta da Bianca Berlinguer. C'era anche lo scrittore, ex senatore della sinistra ed ex pm, Giancarlo Carofiglio, al quale, in nome del politically correct, si è un po' irritata la pelle al suono brutale di «dittatura democratica», ma Conte gli sta benone con tutte le sue emergenze. Insomma: faccia pure il dittatore, ma non lo si spiattelli così al popolo bue, è diseducativo. Bisogna essere grati a Cacciari e Mieli per l'onestà della definizione. Ci viene un dubbio però, constatando il loro "alzare le mani" senza neanche provare a serrare per un istante i pugni del dissenso. Perché questa assuefazione? Questo sfacciato giustificazionismo, tipico della fronda che ironizza e intanto si attrezza a sopravvivere? Non è che nel loro intimo, i due pensatori - opposti dal punto di vista pilifero ma con identica sorgente ideologica atavica - si siano consegnati ai sogni della loro giovinezza? Non ho alcuna intenzione di passare per l'Umberto Galimberti o addirittura il Massimo Recalcati dei poveri e psicoanalizzare i numi della cultura italica. Impressiona però una coincidenza biografica. Cacciari, filosofo, già eurodeputato e sindaco progressista di Venezia, è stato negli anni in cui germogliano inestirpabili gli ideali, militante di Potere operaio.
Mieli, direttore emerito del Corriere, storico, è stato ed è molto di più: è il perno intorno a cui, di decennio in decennio, ruota il pensiero vincente. Ma ecco: anch' egli ha nutrito la mente imberbe in Potere operaio. È lì che i due devono aver assorbito, gente di studio come sono sempre stati, il concetto di «dittatura democratica», intesa non come iattura ma come aurora del nuovo mondo. La formula infatti non è nata storicamente da un moto di orrore liberale di fronte alla minaccia di chi avvelena il metodo democratico con il tossico del suo contrario. Da Tocqueville e Manzoni sarebbero stati afferrati dal raccapriccio per «la contraddizion che nol consente». Dittatura-democratica è un matrimonio di parole che non trova posto nella Costituzione italiana. Non c'è peste o lebbra o coronavirus che consenta questo mostruoso connubio. È un concetto che repelle al suo spirito e alla sua lettera. I Padri della Repubblica si saranno certo rivoltati nella tomba udendo la tranquilla esibizione di questi concetti nella televisione di Stato, senza che ci sia stato alcuno scandalo, una qualsivoglia nota del Quirinale.
RETAGGIO MARXISTA
Quest' Italia, la cui cultura dominante è stata temprata dal marxismo, non nutre alcun sano spavento per la contraddizione. I suoi due campioni Cacciari e Mieli la masticano come chewing-gum alla scuola dei (non del tutto) rinnegati maestri. Il primo a fondere innaturalmente gli opposti in una endiadi, fu Lenin nel 1905. Per rendere digeribile il concetto onde turlupinare le masse aggiunse: «Degli operai e dei contadini», purché a guidarli verso l'inferno fosse lui. Chi ne fece il caposaldo della propria tirannide fu però Mao Zedong, che ai tempi di Potere operaio era popolarmente noto come Mao Tze-tung. Non è stato difficile rintracciare la citazione. È bastata Wikipedia. Mao nel fondamentale discorso del 1949 posò l'architrave del comunismo cinese. Esso si esprime in un magnifico ideogramma che fonde i tre termini popolo-democrazia-dittatura, intrecciati magicamente. Dopo Mao, ecco Conte. Potere operaio con la pochette.