Vittorio Feltri e Indro Montanelli: "Tutti credono di essere suoi eredi, io suo indomito avversario"
Tanto per cominciare devo dire che i giornalisti si dividono in due categorie: quelli che lavorano o hanno lavorato al Corriere della sera e quelli che ci vorrebbero lavorare. Ebbene Massimo Fini appartiene alla seconda schiera ed è ovvio che aspiri a far parte della prima. Non me la sento di deplorarlo per questo. Attualmente divampa la polemica sull'imbrattamento della statua eretta in memoria di Indro nei giardini di via Palestro a Milano. C'è chi è indignato per l'atto vandalico e chi ricorrendo ad argomenti ideologici (fragili) lo giustifica, o almeno non lo ritiene grave, perché il grande scrittore da giovane ufficiale spedito in Africa sposò una ragazzina locale, meritandosi così l'accusa di essere uno stupratore razzista. È solo un pretesto ignobile perché nel Continente nero, all'epoca, le fanciulle si vendevano e si compravano dai genitori a fini matrimoniali. Un costume criticabile fin che volete ma accettato e difeso dagli indigeni ancora oggi. Quindi non vedo perché a distanza di quasi un secolo si debba processare e castigare Montanelli per aver fatto ciò che le abitudini del luogo consentivano e incoraggiavano.
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Chiarito il punto, mi sembra normale che molti colleghi desiderino essere considerati eredi della miglior penna, e ancora insuperabile, del '900. Non appena un cronista esce dal gruppo selvaggio degli sconosciuti al pubblico, subito pensa di essere la fotocopia dell'immenso Indro. Che tra costoro ci sia anche Massimo non mi sorprende, dato che indubbiamente ha delle capacità notevoli, però gli manca un metro per giungere all'altezza del maestro. Del quale io non mi sono mai sognato di essere l'erede. Sarò un cane sciolto e forse portato a mordere, tuttavia non ho la presunzione sufficiente per mettermi alla pari col numero uno in assoluto. Semplicemente sono stato il suo successore alla guida del Giornale nel 1994, proveniente dall'Indipendente. Confesso che il compito di sostituire Montanelli mi angosciava e temevo di fallire. Poi tuttavia, vinta la paura, mi tuffai nel lavoro e mi resi conto di potercela fare. Scrissi che il Giornale sarebbe riuscito a essere importante anche con un direttore modesto. Così fu. Avevo preso sotto le mie cure il quotidiano quando vendeva 115 mila copie (gennaio 1994) e dodici mesi dopo lo portai a oltre 200 mila per arrivare in autunno a 256 mila copie. Nella scalata fui assistito da Sanculo, ma ci misi anche del mio per non far rimpiangere l'illustre fondatore. Tutto questo per dire che comunque non mi sento un fenomeno come Indro, semmai un suo indomito avversario nel campo della conduzione di un quotidiano.