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Renato Farina contro gli anti-razzisti che cancellano la storia: "Abbattono le statue e non i propri cervelli"

Renato Farina
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La furia iconoclasta di quest' anno ha strappato nuovi scalpi da appendere alla trave alla quale i suoi protagonisti attuali saranno a loro volta impiccati tra qualche anno. Il conto è provvisorio. Abbiamo segnato le statua di Cristoforo Colombo affogata in un lago a Richmond, in America, colpevole di averla scoperta; quella di uno a noi sconosciuto schiavista del '600 a Bristol e di altri colleghi sparsi nel Paese; ha poi sfregiato a Londra quella di Winston Churchill perché «era un razzista» avendo difeso le colonie della Regina in India; in Belgio il monumento a Leopoldo II, oppressore del Congo. Molte altre lapidi ed effigi sono in corso di sradicamento. In Italia essa si è diretta, per la seconda volta in un paio d'anni, contro Indro Montanelli, per aver sposato, secondo costumi africani degli anni 30, la dodicenne figlia di un capo etiope. Ultimo caso notevole, che sobbolliva già da un po'. L'Olympiastadion di Berlino, voluto dal regime nazista e inaugurato nel 1936 per ospitare i Giochi Olimpici estivi, non essendo passibile di essere buttato giù da un corteo, sarà - dopo una campagna di stampa su Zeit - ristrutturato demolendo tutti i simboli del regime hitleriano: non solo le sculture, ma la stessa forma, troppo rievocativa dell'estetica del III Reich. L'Herta Berlino sostiene questa idea. Ancora. In Svizzera i supermercati hanno deciso di togliere dagli scaffali, per onorare Georg Floyd, gli storici cioccolatini "moretti", che a suo modo sono un monumento. E avete capito perché.

 

 

L'INVIDIA DEGLI OMETTI
Qui non ci mettiamo a difendere Colombo, Churchill e Montanelli. Constatiamo che quelli che Nietzsche chiamava "ometti" o "cinesini" se la prendono sempre per invidia con i grandi che hanno lasciato un segno nella storia. Ma cerchiamo un po' di capire che cosa sta succedendo. Quando un popolo, o chi per esso, ribalta un tiranno, ribalta anche i segni della sua presenza. Darei una mano anch' io, se dovesse arrivare il califfato islamico in Lombardia, a demolire le statue di Bin Laden (anche se è impossibile: i musulmani non fanno statue). Un conto però è il repulisti di una rivoluzione o dopo la fine di una guerra: i perdenti sono sempre colpevoli. È accaduto e accadrà sempre. I romani spargevano sale, decretavano la damnatio memoriae, neanche il nome doveva sussistere, perché i nomi contengono una forza spirituale. Quello che sta capitando ora è tutta un'altra storia. Ad essersi alzata e a non trovare dighe di buon senso e di onestà è l'onda della purificazione "politically correct".

Per chiarire il concetto, rispettandone l'autore Tom Wolf: "politicamente corretto" è ciò che resta dopo il rastrellamento con il forcone progressista della intera realtà culturale, della eredità giuntaci dal passato bello o brutto che sia stato. Idee, parole, statue, quadri, poesie giudicate fasciste, razziste, omofobe, islamofobe, sessiste, imperialiste. Nei periodi di bonaccia questo vaglio spaventoso procede lento. Si appunta sul vocabolario, agisce attraverso leggi contro opinioni fuori dai canoni (vedi quella oggi in Parlamento). Poi di colpo prende forme devastanti, come oggi. Essa non è dovuta a ignoranza. Anzi essa ha per ideologi gente erudita. Costoro fanno così. Individuano un personaggio famoso che sta loro odioso per ragioni politiche o semplicemente perché è apprezzato da gente estranea ai loro circoli. Dopo di che cercano nei suoi armadi, in qualche lettera, in un discorso bellico qualcosa che stoni rispetto ai dogmi del pensiero unico d'oggi. Estrapolano dal contesto quanto occorre per la loro indignazione, e lo indicano come idoneo al linciaggio. Un'operazione che rinuncia a quella suprema onestà che è riconoscere la perenne imperfezione di chiunque, anche di chi si erge a giudice. Senza prospettiva storica, senza pietas, chiunque è reo di morte.

Su questa base andrebbero abbattute le statue di Giulio Cesare, che in Gallia sterminò un milione e passa di futuri francesi, andrebbe divelto il monumento di Marco Aurelio, i russi dovrebbero dare alle fiamme l'Arco di Trionfo. E l'intero patrimonio architettonico e letterario classico, da Atene a Roma, da Aristotele a Seneca, dovrebbe essere cancellato: schiavismo, umiliazione delle donne, imperialismo erano costumi praticati. Oppure c'è la prescrizione? Non si costituisce nulla se non accettando e notando la tradizione, con tutte le scorie che essa si porta dietro, e gli uomini che ne sono stati l'emblema. Se la civiltà è sopravvissuta alla barbarie dopo la fine dell'impero è proprio perché nei monasteri benedettini santi amanuensi trascrissero opere che pure contenevano ideologie avverse al cristianesimo. E costruirono sui templi pagani, senza distruggerli, cose nuove. Il campione del pensiero moderno, Voltaire, che i progressisti citano continuamente, ingrassò come i due schiavisti inglesi sul commercio di neri con le Americhe, e fu violentemente antisemita (vedi i Dialoghi e il Candide). Antonio Gramsci scrisse dal carcere cose turpi e razziste sui "negri" che riteneva "pericolosi" per aver diffuso in Europa le loro danze inferiori. Che facciamo? Bruciamo i loro monumenti o lo salviamo perché di sinistra?

STALIN IN SOFFITTA
E i monumenti nazisti, fascisti o comunisti? Non faccio l'elenco di quelli belli da salvare, non ho abbastanza competenza. Ma il genio umano per distrazione semina bellezza anche quando serve cause ignobili. E noi siamo tutti figli di epoche dove i nostri padri hanno seguito idoli buoni o perversi, ma sono i nostri padri. Piuttosto in questa epoca dove non esiste memoria condivisa del passato, almeno sia praticato il rispetto delle memorie altrui. Magari mettendo in campo se non l'arte del perdono quello dell'umana convenienza. L'umanità cambia così spesso i suoi cavalli vincenti Mi viene in mento quanto la saggezza contadina raccontò al grande scrittore ebreo-russo Vasilij Grossman nel 1961 in Armenia, allora Urss. Erevan, la capitale, era ancora sotto lo sguardo terrificante del "gigantesco maresciallo di bronzo". Il monumento a Stalin eretto sul monte era un problema per le autorità al tempo di Kruscev. Che farne? Bisognava demolirne la statua per ragioni di opportunità politica e perché nemico del gentile cuore armeno. Ed ecco che un contadino, durante un'assemblea, propose di seppellire il monumento costato centomila rubli solo dieci anni prima, anziché distruggerlo. «Può tornare comodo se cambia il governo». Del resto gli armeni com' è che difesero il loro patrimonio di chiese cristiane in attesa dell'inesorabile devastazione mongola: scolpirono sulle porte Cristo, Madonna e santi con occhi da mongoli. Ma questo è un altro articolo.

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