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Giuseppe Conte, il documento del Viminale che lo incastra sulle zone rosse

Lorenzo Mottola
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Di seguito l'articolo di Lorenzo Mottola pubblicato su Libero di venerdì 12 giugno, prima dell'interrogatorio di Giuseppe Conte a Palazzo Chigi sulla vicenda della mancata istituzione della zona rossa di Nembro e Alzano Lombardo.

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Comunque vada, Giuseppe Conte la sua partita l'ha già persa. Negli ultimi mesi il governo ha fatto di tutto per scaricare sulle istituzioni locali (e a volte anche sui medici, come nel caso di Codogno) le responsabilità per alcuni errori commessi durante l'emergenza. E sull'onda del suo brevissimo e bizzarro momento di popolarità mediatica, il premier ci era anche riuscito, sfruttando il nostro caotico ordinamento costituzionale, che spesso non consente di individuare con chiarezza i limiti tra i poteri statali e regionali. I nodi, però, vengono sempre al pettine. Oggi l'avvocato sarà costretto a giustificarsi di fronte ai magistrati della Procura di Bergamo, calati su Roma per interrogare lui, i ministri Speranza e Lamorgese e i dirigenti dell'Istituto Superiore di Sanità. Verrà sentito questa mattina come persona "informata sui fatti" per la mancata istituzione della zona rossa nella provincia di Bergamo, ben sapendo che il magistrato a capo dell'inchiesta, Maria Teresa Rota, ha già chiarito di ritenere che fosse di Palazzo Chigi la responsabilità. D'altra parte la linea difensiva che il premier riproporrà oggi di fronte ai pm - dopo averla sbandierata a mezzo stampa per settimane - fa decisamente acqua: «Anche la Regione poteva istituire la zona rossa, come previsto dall'articolo 32 della legge 23 dicembre 1978 n.833». Una tesi che non regge, vediamo perché.

 

 

LA COSTITUZIONE
Prima di tutto, l'interpretazione della norma non è corretta. Come spiegato dall'ex giudice dalla Consulta Sabino Cassese, l'articolo citato dall'avvocato pugliese fa riferimento a decisioni ordinarie "in materia di igiene e sanità pubblica", ma in questo caso ci troviamo sicuramente di fronte a una "profilassi internazionale", ovvero alla necessità di arginare un'epidemia. E l'articolo 117 della Costituzione (lett. "q") chiarisce che questa è competenza dello Stato al 100%, senza discussioni. D'altra parte, questa tesi fino a marzo pareva essere condivisa da chiunque anche all'interno della maggioranza. Il ministro Boccia aveva dichiarato in un'audizione alla Camera che «in caso di emergenza nazionale decide lo Stato» e «spetta allo Stato e solo allo Stato intervenire». Nessun dubbio anche per il ministro degli Interni Luciana Lamorgese, che l'8 marzo, in un passaggio della circolare diffusa per chiarire alle prefetture i contenuti del decreto con il quale l'intera Lombardia veniva dichiarata "zona rossa", spiegava che «va rilevata l'esigenza che in ogni caso, e soprattutto in questo delicato momento, non vi siano sovrapposizioni di direttive aventi incidenza in materia di ordine e sicurezza pubblica, che rimangono di esclusiva competenza statale e che vengono adottate esclusivamente dall'autorità nazionale e provinciali di pubblica sicurezza». Di cosa si parla? Ma ovviamente delle ordinanze per «evitare ogni spostamento delle persone fisiche in entrata e in uscita dai territori in questione, nonché all'interno dei medesimi». Da notare: Attilio Fontana non ha a disposizione forze di polizia. E la prefettura, come spiega il documento, aveva l'ordine di ascoltare solo le disposizioni di Roma. Come avrebbe potuto il governatore fermare le valli bergamasche senza militari e poliziotti? In pratica si sarebbe dovuto mettere personalmente a fermare le auto per strada con Giulio Gallera.

IL DOSSIER DELL'ESECUTIVO
A peggiorare la situazione di Conte, poi, ci hanno pensato proprio i suoi consulenti sanitari. Il giurista foggiano nei giorni scorsi ha realizzato un dossier che verrà presentato oggi ai magistrati. La tesi di fondo: fermare Alzano e Nembro era inutile, perché ormai il contagio era troppo diffuso in Lombardia. Meglio chiudere tutta la Regione. Gli esperti di Palazzo Chigi, però, avevano dato indicazioni diverse. Il presidente dell'Istituto Superiore di Sanità Silvio Brusaferro è stato sentito dai pm e ha detto di aver ben chiarito in una serie di documenti spediti alla presidenza del Consiglio i rischi che avrebbe comportato una mancata chiusura delle valli bergamasche, consigliando di fermare tutto nei primi giorni di marzo. Franco Locatelli, presidente del Consiglio Superiore di Sanità, lo ha ripetuto anche ieri su Raitre ad Agorà: «Noi abbiamo sollevato l'attenzione sulle aree dove c'era il numero maggiore di casi e sono state fatte, con una tempistica stringente e non perdendo assolutamente tempo, tutte le analisi che hanno permesso al decisore politico di fare le scelte del caso». Invece sono stati persi vari giorni. Va notato, infatti, che il livello di "sicurezza" della zona rossa regionale istituita l'8 marzo non è certo stato quello di Codogno, ovvero uno stop completo, che verrà deciso solo il 22 marzo. Ed è questo ciò che gli esperti di Palazzo Chigi avevano chiesto.

 

 

FREGATO DAI SUOI
Locatelli e Brusaferro, come ormai noto, avevano proposto le loro tesi già in un importante vertice il 3 marzo, chiedendo la serrata (il primo marzo il governo aveva emanato un altro DPCM per modificare lo status delle zone rosse e arancioni, mantenendo quindi il pieno controllo sulla pratica). All'incontro era presente anche un emissario lombardo: l'assessore Gallera, il quale aveva a sua volta espresso parere positivo alle chiusure. Tutti d'accordo, insomma, compreso il ministero della Salute. E tutti si aspettavano che il giorno dopo la prefettura predisponesse i posti di blocco. In effetti quest' ordine viene dato da Roma e l'esercito si prepara a fermare i collegamenti. Dopodiché nel giro di 24 ore arriva un contrordine dal governo, che continuerà a lasciare libera la circolazione. Al termine del vertice pareva chiaro che si sarebbe proceduto con un ordine governativo, esattamente come successo a Codogno. Tornare a Milano e emanare un'ordinanza identica sarebbe stato da pazzi, tanto più che la Regione ha sempre cercato di mantenere buono (o almeno, decente) il rapporto con Roma nelle prime fasi. Le cose da allora sono molto cambiate.

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