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Giuseppe Conte, Giuli contro gli Stati Generali voluti dal premier: uno show inutile

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A che servono gli Stati generali dell'economia convocati da Giuseppe Conte? A nulla, se non a perdere dieci giorni in una grande festa di fine primavera nel verde lussureggiante della romana Villa Doria Pamphilj. Uno sperpero di tempo e denaro e pudore che andrà in scena fino al 21 di giugno, solstizio d'estate, in omaggio al narcisismo sfrenato di un presidente del Consiglio che di fronte alla lancinante emergenza sociale italiana si comporta come un pessimo medico alle prese con un paziente da intubare: aspetti lì, sulla barella, che intanto noi organizziamo un party a tema sulla carenza di ossigeno nei polmoni. Con questo spirito scanzonato, da Palazzo Chigi si aspettano di veder sfilare alcune alte autorità internazionali (dalla presidente della commissione Ue, Ursula von der Leyen, alla direttrice del Fmi Kristalina Gheorghieva, passando per la governatrice della Bce Christine Lagarde e il presidente del Parlamento europeo David Sassoli) accanto a intellettuali e archistar di chiara fama come Renzo Piano, Stefano Boeri e Massimiliano Fuksas. Insomma una specie di Leopolda capitolina, fuori contesto e fuori fuoco, infarcita di seminari ministeriali e sedute di ascolto con i rappresentanti delle parti sociali e delle categorie più o meno produttive della Nazione. Gli inviti all'opposizione sarebbero pervenuti in coda agli altri (Matteo Salvini ha risposto che «gli italiani pagano il Parlamento, non le ville») ma ciò che desta più interrogativi è l'assenza annunciata di Vittorio Colao, il super manager incaricato di redigere (gratis) con la sua task force un generico progetto di rilancio dell'Italia e di cui il premier non sa che farsene. Sappiamo che il Pd non l'ha presa bene: come erede del cattocomunismo novecentesco, il partito guidato da Nicola Zingaretti conserva nel proprio Dna un residuo di realismo operoso che mal si concilia con certe liturgie mondane troppo stridenti rispetto al ritratto dell'Italia contemporanea piegata dalla pandemia. Del resto, sono stati proprio i democratici fra i primi a ricordare all'avvocato di Volturara Appula che sia «il piano di rinascita» sia «gli stati generali» sono formule ben che vada inconcludenti e in ogni caso evocano ombre funeste e presagi di sangue: dalla P2 di Licio Gelli all'ideona concepita dal sovrano francese Luigi XVI, il quale riunì clero, aristocrazia, plebi urbane e rurali nell'assemblea consultiva del 1789 che fu il prologo della ghigliottina sanculotta. Nel caso di Giuseppi, l'analogia è aggravata dalla sua naturale tendenza a incastonarsi nel ruolo di una Maria Antonietta che davanti al popolo affamato neppure immagina di spandere brioches ma decide di spartirsele con gli ottimati. Il falso storico è purtroppo calzante, tuttavia non occorre aver studiato un poco di storia per comprendere che il governo sta giocando col fuoco. C'è naturalmente una strategia, dietro l'improvvida decisione. Conte e i suoi consiglieri ritengono che la recente personalizzazione mediatica della crisi provocata dal coronavirus si combini alla perfezione con la tattica del temporeggiamento. L'approccio ecumenico - «vi ascolteremo tutti, uno per uno» - s' intreccia con la ricerca di una ribalta cucita su misura, egoriferita e compiaciuta, incoraggiata dalla caligine dei sondaggi favorevoli. Il partito di Conte è già nei fatti, prima ancora che nei suoi presupposti fattuali, un ordito ricamato intorno all'idea salvifica di un presidente del Consiglio extra partitico che si fa rincorrere dai frastornati portatori d'acqua della maggioranza mentre allestisce la propria Versailles al Gianicolo assieme a una corte di plaudenti cicisbei.

 

 

 

Che cosa possa produrre tale iniziativa, di là dall'impatto mediatico e da un inevitabile esborso di soldi pubblici, è un mistero al quale non saprebbero rispondere in primis gli ospiti meno graditi della cerimonia: i portavoce dei ceti produttivi, dei lavoratori autonomi e dei risparmiatori su cui sta gravando il maggior peso del tracollo economico nazionale. Ne nascerà, immaginiamo, qualche altro documento: carta che si aggiunge a carta, fra polvere di stelle e arcadici tramonti di fine stagione. E forse l'obiettivo è appunto questo: una cosmesi mediatica internazionale, praticata a favore di telecamere e di corrispondenti esteri, per illudersi di poter rilanciare l'immagine italiana eludendo la sostanza dei problemi che esigono azioni e non chiacchiere, interventi celeri e non paranze da inquilini del privilegio in pose da pensatori. Ormai conosciamo bene questa logica di Palazzo, la logica dell'azzeramento continuo delle incertezze pregresse che si dispiega attraverso la falsa e continua promessa di una ripartenza a portata di mano; a patto che ci si adegui alla dottrina glabra e vacua del piccolo-grande manovratore, accettando l'esautorazione del Parlamento e la restrizione degli spazi canonici del confronto pubblico e della libertà d'espressione. Sappiamo anche che la prima vittima di questo torbido reality show è il contatto con la verità delle cose e con le ferite dell'Italia. La messa in scena del premier-taumaturgo che ascolta i sudditi con finta degnazione può funzionare nel pieno di un angosciato confinamento civile determinato dal picco della pandemia. Ma oggi? Si risolve in una grave perdita di tempo incipriata con accuratezza.

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