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Carlo Calenda, la scomoda verità di Alessandro Giuli: “Dice cose giuste ma nessuno le vuole sentire"

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 Il problema di Carlo Calenda è che spesso ha ragione, ma nei modi e nei momenti sbagliati. Eppure, con Giorgia Meloni, il fondatore e capo di Azione è in questo momento il leader più premiato dai sondaggi, ha scavalcato Italia Viva di Matteo Renzi e va incontro ai sentimenti di sconcerto serpeggianti nel cuore degli elettori di fronte all'inconsistenza della classe dirigente nazionale alle prese con la pandemia sanitaria e la devastante crisi economica. Calenda ha il pregio di chiamare le cose con il loro nome e il difetto di farlo senza alcun gusto per l'accomodamento, la mediazione diplomatica, l'arabesco espressivo. Il che lo rende autentico e spaventoso al contempo. Faremo qualche esempio, partendo dal presupposto che per lui l'unità di misura di un politico sta nella vera o presunta capacità di gestire un bar: va da sé che ai suoi occhi né il governo né l'opposizione sono all'altezza del bancone-Italia e del suo macilento registratore di cassa. L'altro giorno, in una delle frequentissime ospitate televisive (gli autori dei talk hanno un debole per i personaggi divisivi come Calenda, poiché non deludono mai alla prova dell'audience), ha esagerato nella forma e nel contenuto, come talvolta gli accade, e tuttavia è riuscito a cogliere il centro dell'eterna questione italiana: «Nessuno sa più gestire un cavolo e allora ci s' inventa un conflitto ideologico tra due parti che non fanno niente di quel che dicono, e che raccontano che metà degli italiani è fascista e l'altra metà comunista è tutto un gioco delle ombre». La formula del "gioco delle ombre" ha qualcosa di desolatamente poetico ma Calenda ci mette dentro tutta la prosa di cui la realtà è intessuta: «Siamo davanti a una sceneggiata in Italia il Pd accusava di eversione il governo precedente a causa della legge sulla legittima difesa e dei decreti sicurezza, ma quei provvedimenti sono rimasti intatti Zingaretti aveva fatto dello ius culturae la sua battaglia di civiltà, ma lo ius culturae non l'ha più fatto Salvini aveva promesso di fare un sedere così all'Europa e il 5% di deficit ma poi ha fatto meno debito dei nostri governi sono tutte balle!». Tutte balle, tranne le intemerate del secchione-Calenda che ha studiato le lingue straniere e conosce bene i meandri occulti della burocrazia in cui giacciono soldi e atti amministrativi d'importanza vitale, sicché può dire di aver cambiato idea sul Mes - offrirebbe all'Italia più soldi e meno vincoli rispetto al Recovery fund - e gridare a cielo aperto che «stiamo continuando a farci prendere dai fondelli da una classe politica di incapaci».

Si capisce che questo registro piaccia alla gente comune e disincentivi numerosi leader di governo (a cominciare da Luigi Di Maio) dall'accettare le sfide pubbliche rivolte di continuo da Calenda, la cui scommessa principale è quella di aggirare il fatto che siamo una nazione schematica: fascisti o comunisti, destra o sinistra, buoni o cattivi, pregiudicati o incensurati, ghibellini o guelfi e così via. E invece lui vuole giocare la sua partita sulla dialettica tra esperienza e avventurismo: incompetenti contro competenti (lui modestamente lo divenne). Tutto questo, appunto, a prescindere dalle appartenenze ideologiche, al punto tale da raffreddare (se non compromettere) perfino i suoi rapporti con gli ex sodali e ultrà dell'europeismo tecnocratico come Emma Bonino: mentre lei e il suo manipolo di fedeli accolgono a occhi chiusi ogni vocalizzo globalista tradotto nella lingua burocratica dell'Unione europea, Calenda (già fondatore della corrente piddina "Siamo europei") è arrivato a mettere in questione la stessa sopravvivenza dell'Ue nel caso in cui non venga fuori da Bruxelles un piano serio di mutualizzazione del debito continentale. Roba forte, ma non bisogna farsi illusioni perché lui un minuto dopo aver sostenuto una tesi cara ai sovranisti ritorna subito a picconare «la destra che non legge mai le carte». Lo stesso trattamento viene riservato al gemello-coltello Renzi, accusato puntualmente d'intelligenza ormai non solo tattica con i poco intelligenti pentastellati e vittima di una crisi di rigetto anche personale dopo un remoto e infruttuoso tentativo di fare accordi per le regionali. Per non dire del Pd, nel quale ha militato cursoriamente ottenendo molti voti per un seggio da europarlamentare La verità è che Calenda si ostina a sostenere cose per lo più vere e sensate, in un contesto politico in cui nessuno vuole sentirsele dire: in tempi di relativa bonaccia, passava per rigorista affermando che «non si possono spendere tanti soldi se hai tanti debiti. Perché se no i debitori non te li prestano più. Non è difficile»; oggi in piena calamità pandemica fa il metronomo del deficit spending rammentando al governo che prima di chiedere (legittimamente) altri soldi ai partner internazionali bisognerebbe imparare a spendere i fondi europei ancora immobili per negligenza o imperizia. È stato anche credibile nell'autocritica, Calenda, quando ha scritto in un suo libro che «abbiamo puntato tutto sulla competenza senza preoccuparci della rappresentanza che ci è stata scippata dai populisti» ("Orizzonti selvaggi", Feltrinelli); e adesso può azzardare il salto di qualità tornando in libreria con "I mostri. Come uscire dal labirinto che abbiamo costruito" (Feltrinelli), dosando paura e fiducia e mettendosi ventre a terra per conquistare la rappresentanza di cui ha bisogno la sua Azione.

 

 

L'ambizione non gli manca, anche per questo pare aver rinunciato alla corsa da sindaco di Roma: un pensierino sul Campidoglio l'aveva accarezzato («non faccio nomi, ma serve qualcuno che abbia una conoscenza molto profonda e di tipo anche tecnico della Capitale», si schermiva mesi fa), ma adesso sa di trovare lì soltanto le macerie lasciate dall'ineffabile Virginia Raggi. E sopra tutto ha compreso che uno spazio vitale per la sua scommessa lib-dem esiste ed è trasversale agli schieramenti canonici: raccoglie buoni segnali sia dalla destra moderata sia dai delusi della sinistra riformista indisponibili a votare Pd in omaggio alla memoria berlingueriana che ne sta saldando il Dna a quello dei grillini. Al netto di un carattere da energumeno del concetto, bisogna ammettere che l'ex pupillo di Montezemolo è cresciuto rispetto a un paio d'anni fa, quando scrivemmo di lui che «possiede tutti i requisiti per essere un fuoriclasse della politica nell'epoca divoratrice della tirannia digitale. E invece niente: quest' anima loquente del buon senso civico ha le idee giuste ma le coltiva nel modo sbagliato, incapace com' è di fare squadra». Piuttosto che mettere su una squadra federandosi con Renzi, Berlusconi o Bonino ha scelto la via più umile della solitudine, guardando alla traiettoria ascendente degli avversari Meloni e Salvini che hanno ricostruito i propri mondi ripartendo da zero o quasi, fino a consolidare nuove rendite e marchi politici di chiaro successo. Come ex manager del settore privato ed ex titolare del dicastero dello Sviluppo, inoltre, le buone relazioni non gli mancano: ha un rapporto personale con il nuovo presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, ma è un po' tutta la filiera ad aver serbato un buon ricordo del suo progetto Industria 4.0 poi sbaraccato dai gialloverdi. Naturalmente sarà l'ordalia delle urne, al più tardi nel 2023, a svelare se e quanto Calenda sia in gamba come pensa di essere. Nel frattempo c'è un deserto da attraversare e lui si propone come quello che saprebbe cosa fare «nell'unico Paese occidentale in cui nessun leader di partito vorrebbe davvero sobbarcarsi il lavoro di presidente del Consiglio». Ovvero? Imparare a far girare quel poco d'investimenti pubblici necessari a non estinguerci, studiare, sudare e dire la verità. Il contrario di quanto sono abituati a fare i politici. Ed è anche questa la ragione per cui Calenda vorrebbe essere il più tecnico dei politici e il più politico dei tecnici. 

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