Pietro Senaldi contro i virologi: "Non ne hanno azzeccata una, solo scorribande nei salotti tv"
Il Covid-19 ha lanciato nello sfavillante mondo delle televisioni e dei giornali una categoria di medici che fino a gennaio quasi nessuno si filava. Sono i virologi. Nelle grosse strutture ospedaliere generalmente lavorano nello scantinato, ingiustamente snobbati dai colleghi, che li considerano topi da laboratorio. Sono scienziati. Medici che non curano, non operano, per lo più neppure visitano. Non è raro incappare in camici bianchi che dichiarano candidamente di aver scoperto solo grazie al Covid-19 che l'ospedale presso il quale lavorano da decenni è dotato anche di un reparto di virologia. Il compito di questa categoria non è mappare lo sviluppo della pandemia e valutare a che livello di diffusione sia il contagio, se esso si sia ridotto, o addirittura se sia sparito o se possa tornare in autunno. Neppure li riguarda l'analisi del coefficiente di trasmissibilità, al quale sono legate le riaperture.
Questo lavoro spetta agli epidemiologi. Tantomeno i virologi sono incaricati di guarire i malati, responsabilità di pneumologi, anestesisti rianimatori e, si è visto con lo sviluppo del male, tuttalpiù ematologi e cardiologi. I virologi hanno un'unica missione: studiare il virus, capire come si trasmette e individuare un vaccino che lo debelli. Su come affrontare il Covid-19 e quanto abbassare la guardia ora che le cose sembrano andare meglio, il mondo della scienza si è diviso violentemente. Tutti però sono d'accordo su un punto: di questo virus sappiamo poco o nulla, per decisive settimane ci è stato detto che le mascherine non servivano a nulla e il vaccino per ora resta una chimera. Sillogismo: non è il caso di pendere dalle labbra dei virologi, perché generalmente le muovono per parlare di qualcosa che conoscono per sommi capi e con il quale hanno avuto contatti più attraverso il microscopio che incappandoci nelle corsie ospedaliere o assistendo malati nelle sale di rianimazione.
CHI PARLA E CHI FA
Cionondimeno questo tipo di scienziati continua a fare scorribande nei salotti tv, come se il vaccino potesse spuntare improvvisamente fuori da un microfono durante un intervallo pubblicitario. Imperversano soprattutto loro, anche perché mentre questi scienziati concionano, gli altri dottori sono in ospedale a salvare vite umane. Ospitata su ospitata, è inevitabile che un buon drappello di virologi sia assurto a una certa fama, anche se per titoli giornalistici piuttosto che accademici. Ed è altrettanto conseguente, poiché l'uomo è di carne, che alcuni siano stati tentati di ricavare qualche vantaggio dalla propria notorietà commercializzando il proprio sapere. Uno dei campioni della categoria è la ex parlamentare montiana e mondana Ilaria Capua, un cervello in fuga che opera da anni in Florida, ma la cui occupazione principale è dirci come vanno le cose tra Bergamo e Brescia. Normalmente i medici utilizzano pubblicazioni scientifiche per divulgare il proprio sapere. Per l'intanto però la signora ha preferito uscire con un libro dedicato al grande pubblico pagante. Lo ha titolato «Il Dopo», benché per venderlo sia funzionale che questo poi non arrivi troppo presto.
LE ULTIME PAROLE FAMOSE
Altro numero uno indiscusso è Roberto Burioni, davanti al quale ci scappelliamo e che abbiamo sempre difeso a spada tratta perché è il grande nemico del popolo No-Vax, che ha giustamente sempre trattato come un esercito di fessi. Quando già il virus imperversava in Italia da oltre un mese e mezzo, a febbraio, dichiarò in tv che la possibilità di contagiarsi nel nostro Paese era zero. Nessuno, e ci mancherebbe, lo processa per questo, però più sorprendentemente da allora ha ottenuto contratti televisivi per dire la sua sull'epidemia e aziendali per fare il garante anti-Covid. Un posto d'onore nella galleria degli errori, o degli orrori, spetta a Maria Rita Gismondo, che definì il Corona «poco più grave di un'influenza» e si guadagnò così una rubrica sul Fatto Quotidiano, curiosamente non titolata la cazzara in camice. Come Travaglio concili il verbo della virologa con gli attacchi giornalieri alla Regione Lombardia per aver sottovalutato l'epidemia è un mistero della fede cieca dei lettori nel loro idolo manettaro. Altri due affezionati del tubo catodico sono Massimo Galli e Fabrizio Pregliasco. Il primo, dopo aver detto il 10 febbraio che l'Italia stava contenendo il virus, dieci giorni fa ancora affermava che l'aumento delle temperature non avrebbe aiutato a fiaccarlo. Almeno lui ha fatto mea culpa pubblico, ammettendo di essersi sbagliato. Il secondo il 22 febbraio definì il Covid «una malattia banale con tasso di mortalità bassissimo»; salvo poi innestare una potente retromarcia che dieci giorni fa, quando i medici lombardi già sostenevano che il Corona si stava spegnendo, lo ha portato addirittura a dire che il morbo ci accompagnerà per due anni.
CONFLITTI D'INTERESSE
A pesare più di tutti però è Franco Locatelli, dell'Istituto Superiore di Sanità, il virologo di palazzo. Ieri ha dato dell'irresponsabile al primario del San Raffaele di Milano, Alberto Zangrillo, il quale ha dichiarato che il virus clinicamente non esiste più, tesi condivisa dai professori Giuseppe Remuzzi e Francesco Le Foche, che hanno combattuto la malattia in ospedale e non alla scrivania. D'altronde, se il virus deve risparmiare la razza umana per mantenersi vivo, è altrettanto vero che i virologi devono mantenere vivo il virus per non tornare nell'anonimato e magari perdere qualche collaborazione preziosa. Ovviamente la compagnia non ha mezzi per smontare la tesi di autorevoli professori dal punto di vista scientifico. Infatti l'accusa principale è che Zangrillo e compagni sbagliano dal punto di vista della comunicazione. Da quale pulpito, signori miei