Coronavirus, Paolo Becchi: "Dopo l'Europa fallirà anche la globalizzazione"
Prima che l'epidemia mostrasse i suoi effetti, era circolata un'idea che in poco tempo era diventata "virale". Il virus avrebbe rappresentato «la più clamorosa sconfitta del sovranismo», di quell'idea, per dirla in breve, che considera gli individui - sotto il profilo politico - anzitutto come appartenenti ad una nazione, ad uno Stato. I cittadini erano al contrario anzitutto "cittadini del mondo", o almeno cittadini europei. Del resto, se c'è qualcosa che pare non avere confini è proprio il virus che sta infettando il pianeta. E allora contro il virus non c'era che un rimedio, l'unico vaccino era il «vaccino della globalizzazione», come intitolava tra l'altro il giornalino italiano dei neoliberali in un ampio dossier. Calerà un po' il turismo, ma per poco: «Oggi la dipendenza reciproca agisce come una rete di salvezza per tutti».
Insomma, si diceva: per fortuna che la globalizzazione c'è, perché l'emergenza epidemica la potremo vincere con maggiore globalizzazione, ed in Europa - ovviamente - con maggiore Europa. Il giornalino peraltro non faceva altro che diffondere il "virus" della globalizzazione, non il "vaccino". Ma ecco che, passata non più di una settimana, gli stessi che hanno sostenuto queste cose parlano oggi di «orgoglio nazionale», di «unità nazionale», di «tricolore nazionale», di «governo nazionale», di «solidarietà nazionale». «Torna l'orgoglio nazionale», «gli italiani si stringono attorno a Conte» ora a scriverlo, a caratteri cubitali, è persino un giornalone. Tutto ora è d'improvviso diventato "nazionale", ma purtroppo più che di "orgoglio nazionale" bisognerebbe avere il coraggio di parlare di "lutto nazionale", per il rispetto che si dovrebbe ai tanti morti in condizioni dove persino la pietà molto spesso è venuta meno. Vorrei provare a spostare il discorso ad un livello superiore. Offrendo due considerazioni.
EMERGENZA ECONOMICA
Ecco la prima. Il virus anzitutto è un effetto della globalizzazione. Certamente, ci sono state anche in passato epidemie, ma questa proprio a causa dell'interdipendenza reticolare globale creerà non solo una emergenza sanitaria, ma altresì una gravissima emergenza economica. Il rischio, che un tempo poteva essere localizzato, ora è diventato globale. Lo stiamo vedendo in questi giorni con il crollo di tutte le borse. Ma non solo, stanno crollando anche i nostri strumenti psicologici di difesa. Globalizzazione significa vivere in un mondo continuamente a rischio. Dal nemico visibile del terrorismo al nemico invisibile del virus, siamo condannati a vivere nel rischio permanente, passando da un rischio all'altro. Vogliamo proprio continuare su questa strada? Alcuni dicono che non ci sono alternative e che anzi «problemi globali esigono soluzioni globali». Ho forti dubbi al riguardo. La globalizzazione è fragile e tanto più aumenta tanto più fragile diventa.
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Il virus è un problema globale, ma i morti di Bergamo sono di Bergamo e mi pare difficile pensare che la soluzione dei posti letto in terapia intensiva in quella città, o in altre e non solo in Lombardia, si possa trovare grazie all'intervento dell' Organizzazione Mondiale della Sanità. Trasferire le imprese dove il lavoro costa poco ma la domanda è assente e quindi i prodotti vengono trasferiti dove la domanda esiste non è stata una grande figata. Le mascherine vengono prodotte a Wuhan perché lì costano meno, però se le avessimo prodotte in Italia oggi non avremmo i problemi che abbiamo. Ciò che ci insegna questa esperienza è che la globalizzazione crea problemi che poi non è in grado di risolvere, e scarica sul locale i guai che essa genera.
Alla fine di questa storia vedremo che chi in Italia ha affrontato nel modo migliore la situazione non è stato né una organizzazione mondiale e neppure lo Stato ma una Regione: quella veneta, che per prima ha spento un focolaio interno e poi varato un piano per "liberare" il prima possibile chi è immune. La seconda considerazione parte dall'osservazione di qualcosa che dovrebbe essere sotto gli occhi di tutti. Ci sono notissimi filosofi del diritto che si ostinano a parlare di «costituzionalismo globale», di «sfera pubblica planetaria», di «un unico popolo della terra». Non c'è peggior cieco chi non vuol vedere.
SCHENGEN
Per lo meno in Europa, è del tutto evidente che il primo effetto politico dell'epidemia sia il venir meno di qualsiasi retorica europeista: altro che «Europa senza confini», qui ciascun Stato non fa che riaffermare i propri confini, chiudendo il proprio territorio. Già sette Paesi hanno notificato la sospensione di Schengen - si tratta di Germania, Austria, Ungheria, Repubblica Ceca, Danimarca, Polonia, Lituania. Spagna e Francia stanno per farlo. Noi, alla fine, saremo gli ultimi mohicani. L'Europa non solo si chiude verso l'esterno, ma ritorna ad essere uno spazio non più "comune", bensì di Stati indipendenti e sovrani. E questo proprio in un momento, in cui i Paesi dovrebbero collaborare e cooperare per risolvere una epidemia che, dei confini, non tiene ovviamente conto. A pensarci bene è pazzesco: a parte il salvataggio dell' euro, tutto le volte che ci si trova in Europa di fronte ad una emergenza - basti pensare a quella connessa all' immigrazione clandestina - sono gli Stati ad occuparsi per conto proprio dei loro popoli. Altro che globalizzazione, qui persino nello spazio europeo stiamo ritornando agli "Stati nazionali chiusi".
E non dico che una tale chiusura sia un bene, sto semplicemente descrivendo la realtà. Nonostante, stando ai trattati, tutti gli Stati dovrebbero collaborare tra loro in caso di emergenza sanitaria, ognuno fa per sé la sua propria guerra al virus. Di "mutualizzazione" del debito per affrontare in comune l'emergenza economica non se ne parla proprio, tutt'al più ci vogliono mettere il cappio al collo col MES, magari cambiandogli di nome. Il tempo del "più Europa", come quello della globalizzazione, sembra finito e tutti ora parlano di "più Stato", di piani di ricostruzione "nazionale", di difesa "nazionale", di orgoglio "nazionale". Anche questa peraltro non è la soluzione. La crisi della globalizzazione non verrà superata con il semplice ritorno alle sovranità statali, ma con la costruzione di grandi spazi geopolitici.