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Un Paese di frignoni

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Le ultime lacrimose esibizioni di politici e calciatori segnalano un malcostume nazionale: siamo una Repubblica fondata sulle lacrime. E sugli annunci spacciati al posto delle decisioni

Nicoletta Orlandi Posti
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Anche se siamo bresciani, coetanei e nati a pochi chilometri di distanza, non conosco Cesare Prandelli. Per quel poco che ne so, è però una bella persona, che ha alle spalle un'ancora più bella storia. È per questo che mi hanno sorpreso le sue parole di ieri. Ma come, uno così mite e cortese rilascia dichiarazioni sull'Italia, definendola un Paese vecchio, proprio il giorno in cui deve incontrare Giorgio Napolitano? Il presidente della Repubblica ha appena compiuto 87 anni e meglio di chiunque altro simboleggia una classe dirigente antiquata:  presentarsi al suo cospetto con un biglietto da visita come quello esibito ieri da Prandelli in conferenza stampa è dunque una vera scortesia, uno sgarbo al limite dell'incidente diplomatico. Intendiamoci: io sono d'accordo con il commissario tecnico e sottoscriverei  fino all'ultima riga il suo giudizio sull'incapacità del Paese a rinnovarsi. Ma parlare di certe cose poco prima di salire al Colle suona male.  Il capo dello Stato  è sulla scena da oltre mezzo secolo, di lui si registrano discorsi entusiastici a proposito di Lenin, dei carri armati che occuparono Budapest e della cacciata di Solzhenitsyn dalla Russia: più vecchio di così si muore. Ma dirglielo in faccia non sta bene e perciò, in nome delle comuni origini, mi scuso con il Quirinale anche a nome del cittì nazionale. Il quale, come detto, nel merito non ha una ragione, ma mille. L'Italia è un Paese che non sa cambiare e, anche quando sembra decidersi a farlo, poi ripiomba nei vecchi vizi. Prendete ad esempio Mario Monti, che al cospetto di Napolitano  è un ragazzino: quando è stato chiamato a salvare la patria, Parlamento e sindacati (...) (...)  gli hanno attribuito pieni poteri, consentendogli di varare la riforma delle pensioni più draconiana  della storia senza la correzione di una virgola e, quel che più conta, senza un giorno di sciopero.  Il capo del governo a dicembre ha dunque avuto in mano il Paese e, se avesse voluto, avrebbe potuto rivoltarlo come un guanto, riformando tutto quello che c'era da riformare.   Purtroppo per noi, l'ex bocconiano, invece di procedere dritto come un fuso nell'attuazione del suo programma, si è attardato in quella che è la mania nazionale: la concertazione. Anziché infischiarsene di cosa pensassero Cgil, Cisl e Uil, a Monti è venuta voglia di intavolare una trattativa, terreno che è più pericoloso di quello di Mirandola. Risultato? Al posto di ciò che ci si aspettava è venuta fuori  la brutta copia di una riforma del mercato del lavoro, uno sgorbio di cui non c'è giuslavorista che non  parli male, al punto che la maggior parte degli esperti e degli imprenditori rimpiange la legge precedente. Come dire che peggio delle vecchie norme ci sono solo le nuove. Ma il provvedimento che regola i rapporti di lavoro almeno ha visto la luce. Nel bene o nel male (e io propendo più per la seconda ipotesi) qualcosa si è fatto.  Nel caso della spending review, formula pomposa con cui il presidente del Consiglio ha voluto chiamare i tagli alla spesa pubblica, invece, non si è fatto proprio niente.  Sono mesi che se ne parla e, arrivati alla vigilia delle vacanze e della chiusura del Parlamento, la certezza di vedere le misure antisprechi ancora non c'è.  Le cifre che si otterranno grazie all'uso delle forbici naturalmente lievitano di giorno in giorno e dai quattro miliardi già si è arrivati a 11, ma non è detto che con la fine del mese non si possa sfiorare quota venti. Sta di fatto che, a tutt'oggi, il governo non si è risolto a risparmiare un euro. Insomma, come nelle migliori tradizioni siamo tornati alle vecchie abitudini: parole tante, fatti pochi. Meglio la politica degli annunci di quella delle decisioni. E a proposito delle abitudini nazionali e di un certo stile, da segnalare la pratica delle lacrime, che insieme all'inno di Mameli sono ormai diventate una specie di simbolo del  Paese. Ha cominciato Elsa Fornero, la quale ha sdoganato il pianto in mondovisione nel giorno in cui annunciava agli italiani la solenne fregatura previdenziale.  Come quei killer che ti danno il colpo di grazia ma partecipano al tuo dolore, la ministra del Lavoro si è commossa spiegando ai pensionandi  che avrebbero dovuto restare al proprio posto per altri sei o sette anni. Addolorato è parso più volte anche lo stesso capo dello Stato, il quale non ha volutamente nascosto il ciglio bagnato. Per non dire poi di Bossi, che l'altra mattina si è congedato dal ruolo di padre padrone della Lega con l'aria afflitta e l'occhio umido. Ma più di tutti a dar prova che il pianto ormai fa parte del costume nazionale sono stati i calciatori della nazionale, i quali, dopo il quattro a zero subìto con la Spagna, si sono fatti ritrarre con i lucciconi come mai s'era visto. Altro dunque che Repubblica fondata sul lavoro come recita la Costituzione: qui a tenerci uniti sono le lacrime. Non per i terremotati ma per gli esodati degli Europei. Speriamo almeno che non ci ribattezzino la Repubblica dei frignoni. di Maurizio Belpietro

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