La storia di Enzo Tortora e la lezione di Antonello Piroso
la tv che non va in onda
In futuro vorrebbe raccontare l'anarchico Pinelli, quello volato giù da una stanza della Questura di Milano, all'indomani della strage di Piazza Fontana. E certamente lo farà. Ne ha la forza e le capacità. Perché togliere Antonello Piroso, volto e nome de La7, dal quadrato della tv, non è come levare un pesce rosso dall'acquario. No, l'ex direttore del Tg dell'emittente controllata da Telecom Italia media, che ha ceduto il posto a Enrico Mentana, sa nuotare anche senza l'acqua catodica. Che, troppo spesso, finisce con l'intossicare chi la respira a lungo. Ma Piroso, sia pur con tutti i legittimi distinguo del caso, ha qualcosa nel suo Dna che ne permette l'accostamento ad Enzo Tortora, di cui è tornato a raccontare la drammatica vicenda all'Auditorium di Roma, con un monologo che aveva già messo in scena nel 2008. Una ripresa, quella offerta da Piroso, intelligente e lineare al contempo, pulita nella cifra artistica e onesta intellettualmente. Una di quelle cose che vorremmo vedere un po' più spesso in televisione. Soprattutto quando propone una versione rock di “Buonanotte fiorellino” di Francesco De Gregori, presente in sala assieme a Bobo Craxi, a far da sottofondo ai volti e alle cartoline dell'Italia di quegli anni. Meglio, molto meglio, dell'operazione demagogica e populista fatta da Ligabue con “Buonanotte all'Italia”, associata ai volti di quell'Italia tanto cara al Pantheon della sinistra, ma lontana dalla gente che non sa più riconoscere uno come Berlinguer. Ed è tutto dire. Piroso, dal canto suo, prova a gettare il cuore oltre l'ostacolo, prendendosi anche il rischio di apparire un po' troppo libro Cuore quando fa la morale alla categoria dei giornalisti, della quale fa parte, denunciandone difetti e cattive abitudini. Un J'accuse che, almeno una volta nella vita professionale, facciamo un po' tutti. Ma di cui ci scordiamo subito quando ci capita fra le mani un bello “scooppone”. Una bella notizia, anche se si tratta di un morto. Vizi privati e pubbliche virtù, adatti ad assecondare la platea bypartisan dei vip presenti in sala, quali l'ex ministro Giorgia Meloni, il sottosegretario Michel Martone, il marito di Mara Carfagna, l'imprenditore Marco Mezzaroma che ha sostenuto i costi della produzione (lo spettacolo è stato registrato per offrirlo alle tv che vorranno mandarlo in onda e andrà a giro per l'Italia), Claudio Panatta, De Gregori e vari deputati di ambo gli schieramenti. Eppoi c'è lui, soprattutto lui, Enzo Tortora. “Mi hanno fatto esplodere una bomba atomica dentro. Non è pensabile, non è giusto”. Sullo schermo solo una scritta, ma ciò che conta è il documento sonoro. Con la voce provata dal tumore che se lo porterà via di lì a poco, Enzo Tortora irrompe sul palco dell'Auditorium del parco della Musica di Roma, con la registrazione della sua ultima telefonata in diretta tv a “Il testimone”. L'epilogo di una delle più vergognose pagine della nostra storia recente che Piroso racconta nel monologo “Il labirinto: il calvario giudiziario di ET”, frutto di una rivisitazione di quello che il giornalista realizzò già nel 2008 a VeDrò ( il think tank dell'esponente del Pd Enrico Letta) e andato in onda su La7, premiato con il Tv D'oro di Millecanali. A quasi 24 anni dalla morte del papà di Portobello, scomparso a Milano non ancora sessantenne il 18 maggio del 1988, Piroso cuce insieme atti, discorsi, libri, cronache, per una riflessione che coinvolge anche l'oggi sul ruolo della “triade in salsa napoletana” che fece la rovina di Tortora: magistratura, pentiti (furono addirittura 14) e giornalismo antropofago. La magistratura, ieri come allora, continua ad essere una casta si autotutela, che non paga per gli errori, che non accetta la responsabilità giuridica. Eppure, come ricorda Piroso, uno Falcone era per la separazione delle carriere, per togliere peso al Csm, per l'introduzione della responsabilità civile dei magistrati. Dalla lezione del passato abbiamo ancora tante cose da imparare per il nostro presente. E lo spettacolo di Piroso offre tutto questo con estrema semplicità. Solo su una scena nera, con una grande gabbia e uno schermo il giornalista ripercorre lo scempio che fu fatto di Tortora, della sua persona e della sua carriera nei quattro anni che vanno dal giorno dell'arresto (il 17 giugno 1983 alle 4 di notte all'Hotel Plaza di Roma) con l'accusa di associazione per delinquere di stampo camorristico, fino all'assoluzione in Corte di Cassazione nel 1987. Una “macchina del fango ante litteram”, come sostiene Piroso, per la quale nessuno ha pagato, se non Tortora stesso perché, come scrisse Giorgio Bocca di “crepacuore si muore”. Piroso cita Meryl Streep, Pasolini, apre una parentesi su referendum e “leggine”, ripercorre l'umiliazione delle foto con i ceppi ai polsi e pensa alle immagini recenti di Piermario Morosini. “Qual è il senso di rivedere per due giorni le immagini di un ragazzo di 25 anni che muore? Cosa aggiunge alla notizia?”, domanda e si domanda retoricamente. Purtroppo Tortora non viene lasciato in pace neanche da morto. Piroso ricorda la riluttanza della sua città, Genova, a intitolargli una via, i “pentimenti” dei pentiti sui settimanali, le accuse infamanti che hanno continuato ad arrivare e le singolari sentenze che hanno annullato le querele delle figlie Gaia e Silvia. Un viaggio, quello del giornalista de La7, voluto anche “per ricordarci la situazione carceraria e che in quegli ingranaggi può finire chiunque, In platea anche il magistrato Stefano Dambruoso e Claudio Lotito.