Il clima cambia? Gli anti-Trump no
Avrete saputo del rapporto sul clima emesso da 13 agenzie del Governo Trump. I titoli allarmistici dei giornalisti pigri si sono sprecati, perche' non c'e' luogo comune piu' accreditato dai media del drammatico “global warming”. Oppure del suo derivato, il “climate change”, che va sempre bene. Negli anni in cui fa troppo freddo a Miami, per esempio, ma contemporaneamente capitano, cronache alla mano, incendi di boschi in California; “bombe d'acqua” in Liguria; tsunami nel Pacifico; disgelo di ghiacciai in Alaska che si ritraggono riportando alla luce, sorpresa!, villaggi di tribu' di esquimesi che vivevano li' sotto qualche secolo fa, prima dei suv e dei jet privati usati da Al Gore e dai guru ambientalisti della Silicon Valley. Dalle sintesi di comodo del rapporto tirate dai giornalisti sembra che il futuro economico americano sia nerissimo per colpa della benzina. Per lo piu' i media hanno sposato senza esitare le conclusioni propagandistiche di Bernie Sanders, che intervistato dalla CBS ha detto in sostanza che la Terra non ha scampo se non si fa subito la rivoluzione, verde e rossa. Il problema e' che, a leggere davvero il quarto National Climate Assessment, appena pubblicato per rispettare una specifica disposizione del Congresso a dare aggiornamenti sul tema, la realta' non e' per niente cosi' negativa. Non lo dico io ma Steven Koonin, professore di fisica teoretica alla New York University nonche' ex viceministro dell'Energia, con delega alla Scienza, del presidente Barack Obama. Politicamente insospettabile, e serio abbastanza da tener conto dei numeri, ha scritto sul WSJ, il 27 novembre, che “ci si aspetta che il generale impatto economico dei cambiamenti climatici dovuti all'uomo sia piuttosto piccolo. I numeri del rapporto, per incerti che possano essere, non risultano alla fine affatto allarmanti”. I titoli dei media avevano sparato “una riduzione del PIL USA del 10% entro fine secolo”, quasi fosse l'apocalisse. Trump, incurante del fatto che il rapporto fosse un prodotto della sua stessa amministrazione, aveva espresso il suo scetticismo: “Non credo a un effetto tanto negativo sulla economia”, aveva commentato. Naturalmente e' stato fatto passare per negazionista del “cambio di clima”, ma in realta' la sua riserva a proposito delle conseguenze catastrofiche sulla economia USA, di qui al 2100, si e' rivelata fondata. “La previsione finale nel rapporto”, scrive Koonin, “indica che un aumento della temperatura media globale di 9 gradi Faherenheit (oltre gli 1,4 gradi gia' registrati dal 1880) ridurrebbe il PIL USA del 4% nel 2090. Cioe' il PIL USA sarebbe del 4% inferiore di quello che ci sarebbe stato in assenza delle azioni umane. E questo avverrebbe nello scenario peggiore, con il massimo aumento della temperatura prevedibile e le sole misure di adattamento oggi conosciute. Per dirla in altri termini”, spiega lo scienziato obamiano, “la progettata riduzione di crescita media annua e' dello 0,05%. Come dire che il PIL previsto nel 2090 sarebbe soltanto di due anni in ritardo rispetto a quello che sarebbe stato in assenza di cambi di clima provocati dall'uomo”. La sdrammatizzazione dell'esperto e' benvenuta , ovviamente. Ma la mia prima reazione alla lettura dei titoli allarmati usciti sui media subito dopo la pubblicazione del rapporto USA, una settimana fa, era gia' stata di esistenziale sollievo: “Il pericolo non doveva essere quello della morte imminente del pianeta se non eliminavamo la benzina e i prodotti del petrolio dalla nostra vita entro qualche decennio?”, mi dicevo. “E ora ci spiegano che il rischio piu' grave e' che calera' di qualche punto la crescita del PIL americano… in quasi un secolo? Quindi non solo ci sara' ancora la vita sul globo, ma il PIL USA sara' sempre piu' alto del PIL in Italia e in Europa, dove e' frenato dalle politiche economiche di fisco e lavoro? E senza mettere nel conto i futuri guasti del consumismo energetico politicamente scorretto?”. La questione del cambio di clima, anche dopo che Trump ha ritirato gli USA dall'accordo di Parigi, non ha mai scaldato il cuore della gente comune: agli exit poll delle recenti elezioni, i votanti hanno messo solo al quindicesimo posto le tematiche ambientali nella classifica dell'importanza. A coltivare la nicchia del global change sono soprattutto gli ultra' di sinistra. La Democratica Socialista Ocasio-Cortez ha fatto un sit –in davanti agli uffici di Nancy Pelosi, alla Camera, per spingere il partito ad abbracciare la sua idea di un “Green New Deal”, rivisitazione quasi un secolo dopo del “New Deal” di Franklyn Delano Roosevelt, che combatte' la Grande Depressione degli Anni 30 con misure ‘socialiste' che riflettevano la simpatia del leader Democratico di allora per il “dirigismo statalista” di Mussolini, cui scrisse lettere di apprezzamento. Ora la Ocasio- Cortez, 29 anni, che l'ex braccio destro di George W. Bush, Karl Rove, chiama “funzionaria maoista”, punta a “un piano di mobilitazione nazionale, industriale, economica” per eliminare l'energia nucleare, il carbone, il petrolio e il gas naturale in 10 anni, proponendo “di convertire alla efficienza energetica e alla sicurezza oggi tecnologicamente disponibili” ogni edificio residenziale ed ogni palazzo commerciale e industriale. E vuole tutto prima che lei compira' 40 anni. di Glauco Maggi