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Stati Uniti tra una settimana al voto: saranno le "sette tribù" a decidere le elezioni

Glauco Maggi
Glauco Maggi

Giornalista a NYC per Libero, autore di Figli&Soldi (2008), Obama Dimezzato (2011), Guadagnare con la crisi (2013), Trump Uno di Noi (2016). Politica ed economia. Autori preferiti: Hayek, M.Friedman, T.Sowell

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I due episodi che hanno conquistato il 100% dello spazio mediatico piu' in vista nell'ultima settimana, e non poteva essere altrimenti, sono stati la serie di pacchi bomba spediti a eminenti Democratici da un sostenitore dichiarato di Trump, e la strage di ebrei a Pittsburgh commessa da un antisemita. Anche se il killer di 11 fedeli in sinagoga e' un dichiarato critico di Trump, che non sarebbe abbastanza nazionalista ma persino un pupazzo della lobby ebraica (del resto, ha una figlia e il genero ebrei), la vicinanza del voto di medio termine per rinnovare il Congresso fra 10 giorni ha favorito un'interpretazione di entrambi gli eventi come negativi per le prospettive del GOP. Trump avrebbe “ispirato” sia il suo “fan” sia il suo “nemico” con il suo “linguaggio eccessivo e violento”. E' un'interpretazione faziosa, perche' tace la violenza immessa parallelamente nell'agone politico dalla sinistra, con tanto di sangue versato: un anno fa un volontario di Bernie Sanders non ha mandato un pacco bomba innocuo a Steve Scalise, numero due repubblicano alla Camera, ma gli ha sparato, quasi ammazzandolo. E lunga e' la lista dei dirigenti politici Dem che recentemente hanno predicato il diritto di essere “incivili” con i repubblicani (Hillary Clinton), di “prenderli a pedate” (Eric Holder), di “assalirli al ristorante e al supermercato' (Maxine Waters). Comunque sia, la realtà e' che il dibattito politico in America e' esasperato, almeno quello che domina nelle Tv sempre piu' militanti sui due fronti, CNN-MSNBC-CBS-ABC a sinistra e FOXnews a destra. Nel “cortile del Palazzo” il ruolo di dettare il tono piu' alto spetterebbe all'adulto del gruppo, cioe' al presidente. Ma Trump e' caratterialmente incapace di svolgerlo, anche se agli americani, nel 2016, e' piaciuto cosi'. E' tutto da vedere se sara' lo stesso nel 2020, quando il suo nome sara' sulla lista. Ma un'anticipazione l'avremo a breve, nel quasi-referendum del 6 novembre. I votanti giudicheranno tutto: la leadership espressa nel primo biennio della sua presidenza, affiancata a un parlamento controllato dai repubblicani, che fornisce tanti elementi di giudizio in ogni campo. Dallo stato molto positivo dell'economia alla gestione rivoluzionaria dei problemi di politica internazionale: l'offensiva diplomatica con la Corea del Nord; Gerusalemme capitale; l'abbandono dell'accordo sul clima di Parigi e del patto nucleare di Obama con l'Iran; i dazi imposti alla Cina; le armi offensive date alla Ukraina in funzione anti Russia e le nuove sanzioni economiche contro i gerarchi di Putin. E ancora: il volto conservatore dato da Trump alla Corte Suprema con le nomine di Neil Gorsuch e Brett Kavanaugh e la posizione dura contro l'immigrazione clandestina. La saggezza convenzionale, come viene rappresentata pigramente dai media, descrive un Paese irrimediabilmente incapace di dialogo bipartisan, polarizzato, dominato dagli estremi. Questa e' una forzatura. Qualche giorno fa, sotto i radar delle news, il Senato ha per esempio votato una legge – che Trump ha promosso e firmato - che affronta il drammatico, e sentitissimo dalla gente comune, flagello della diffusione degli oppioidi. Non a maggioranza, ma alla quasi unanimita', con 98 si' su 100. L'approccio bipartisan e' del resto indispensabile per governare proficuamente, perche' il Congresso non e' monolitico per Costituzione: ogni due anni rinnova per intero la Camera e per un terzo il Senato, e ogni quattro anni la Casa Bianca. Il ricambio e' un fattore costituente della politica USA, e una ricerca pubblicata  sul New York Post mostra come cio' sia possibile. Curato da “More in Common” (Piu' in comune), pensatoio internazionale dedicato ad allentare le tensioni politiche, lo studio (“Hidden Tribes”, Tribu' Nascoste) si basa su 8000 interviste online su un campionario geografico e demografico rappresentativo. “Abbiamo cercato di dividere il campione in tribu' in base ai loro valori”, ha spiegato il direttore del progetto Stephen Hawkins. Mentre la semplice autodichiarazione di adesione partitica, tipica degli altri sondaggi usuali, offre una sintesi sbrigativa sull'appartenenza a un polo o all'altro, il metodo piu' analitico di “More in Common” indaga le sfumature psicologiche e ideologiche della gente. Ne e' uscita una mappa piu' variegata, con 7 diverse “tribu'” di elettori costituite in base alle loro aspirazioni personali e alla sensibilita' di fronte ai fatti della vita: da sinistra a destra, gli americani si dividono cosi' in “Progressivi attivisti” (8%), “Liberal tradizionali (11%), “Liberal passivi” (15%), “Politicamente disimpegnati” (26%), “Moderati” (15%), “Conservatori tradizionali” (19%), “Conservatori devoti” (6%). Le due ali, che insieme sono solo il 14% della popolazione, sono pero' le piu' “rumorose” e quindi occupano gran parte dello spazio mediatico. Le tre tribu' di centro (Liberal passivi, Disimpegnati e Moderati) pesano per il 56% dell'elettorato e costituiscono il terreno piu' variabile e influenzabile. Saranno dunque le reazioni degli americani in questa larga area di centro a decidere le elezioni. Trump parla nei comizi soltanto al 25% di americani (il 6% “Conservatori devoti” e il 19% “Conservatori Tradizionali”), ma per sua fortuna i suoi oppositori hanno lo stesso atteggiamento ultra-partisan: con il loro crescente radicalismo pro socialista e la demonizzazione di Trump e del GOP di fatto si rivolgono soltanto al 19% di americani (l'8% “Progressisti attivisti” e l'11% “Liberal tradizionali”). di Glauco Maggi

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