Il vero Russiagate: quello dei ClintonQuando vendettero Uranio a Putin...
Giovedi' 8 giugno e' prevista l'audizione in Congresso di James Comey, l'ex direttore dell'FBI che Trump ha cacciato il 10 maggio. Al centro della curiosita' del senatore DEM Joe Manchin della West Virginia, uno dei membri della Commissione inquirente, c'e' questo dubbio, che il senatore ha anticipato stamane in una intervista alla CBS News: se Comey e' stato spinto da Trump a lasciar stare Mike Flynn, indagato per il suo nesso con i russi ed estromesso dalla Casa Bianca dopo tre settimane dall'incarico, e se Comey ha vissuto le parole del presidente come pressioni indebite, illegali, ossia come un chiaro tentativo di ostruire il corso della giustizia, “perche' il direttore dell'FBI non lo ha denunciato subito” ? Perche' ha taciuto ed e' rimasto in carica per mesi senza dire nulla, pur essendo a conoscenza diretta di un “reato” di cui lui stesso sarebbe stato testimone/vittima? Sentiremo quale risposta Comey dara' al quesito, ma dovra' far andare d'accordo la spiegazione che dara' l'8 giugno con il fatto di aver portato alla luce il memo personale – scritto il 14 febbraio con le frasi pro Flynn di Trump - solo dopo essere stato licenziato. Comey e' capace di spericolate capriole logiche e legali. Quando nella conferenza stampa nel luglio del 2016 elenco' i comportamenti illeciti di Hillary a proposito del server privato e delle email classificate che da Segretaria di Stato aveva trattato con “grossolana negligenza” (che e' un reato) tutti si aspettavano che avrebbe concluso il discorso con una raccomandazione di rinvio a giudizio. Invece la “assolse” con una arringa impropria, illegale, perche' la fece, lui che era il capo dei poliziotti (che indagano), vestendo insieme pure i panni del procuratore (che accusa) e della giuria (che giudica). Il caso Comey-Trump-Flynn-Hillary-Russia si trascina da quasi un anno, tenuto vivo dal New York Times e compagnia liberal cantando, nella speranza di pescare il jolly per l'impeachment del presidente. Ma dalle indagine dell'FBI e delle commissioni di camera e senato non e' emerso finora nulla di nulla. E, assurdo per quanto possa apparire, non c'e' alcun crimine reale da indagare e di cui il presidente, o il suo staff, siano al momento accusati. Il vice di Comey Andrew McCabe, in una precedente audizione congressuale l'11 maggio, il giorno dopo la cacciata del suo capo, ha risposto sotto giuramento al senatore Marco Rubio che gli chiedeva se l'FBI avesse subito qualche interferenza nell'indagine sulla Russia “che non c'e' stato alcun tentativo” in questo senso. Nessun procuratore ha peraltro scovato nulla di irregolare negli atti della campagna di Trump: ne' nei mesi prima del voto, ne' nei 7 mesi dopo la sua elezione, e neppure nei quasi 5 mesi da quando e' in carica la nuova amministrazione. Eppure parliamo di una Casa Bianca che ha piu' buchi del gruviera, da cui esce di tutto, basta che contribuisca ad abbattere Donald. Invece il massimo che riescono ad adombrare, persino i piu' prevenuti tra gli avversari del presidente, e' che “c'e' molto fumo ma niente arrosto”. Se i giornalisti volessero davvero raccontare una bella storia di rapporti pelosi tra un politico americano e il suo staff, e il governo di Mosca, con fatti di rilevanza strategica (uranio) e di grettezza finanziaria (discorsi strapagati da una banca di stato russa a un ex presidente e contratti di PR con Mosca con il braccio destro di una ex segretaria di stato) basta che partano da quanto era stato scritto dall'Huffingtonpost il 24 ottobre 2016. A 15 giorni dal voto, tra i liberal e i DEM c'erano tanti che erano ancora pro Bernie Sanders e che, convinti comunque che Hillary avrebbe battuto Trump, si poteva dire la verita' su di lei. Cosi' H.A. Goodman, un contributor per il sito ultraliberal (http://www.huffingtonpost.com/entry/hillary-clinton-is-blaming-russia-for-wikileaks-to_us_580dbb26e4b099c4343198ff ) aveva scritto che “associare WikiLeaks con un complotto russo per eleggere Donald Trump ignora la realta' che la ex societa' di pubbliche relazioni di John Podesta (capo staff di Hillary NDR) aveva lavorato per fare l'interesse di una corporation e di una banca possedute dal governo russo. Pochi sanno che Open Secrets.org riporta che il Gruppo Podesta ha firmato un contratto per 60mila dollari con la Uranium One. In aggiunta a fare lobbismo per conto di una corporation che era per lo piu' posseduta dal governo russo, sono ben documentati i legami del Gruppo Podesta con una banca russa”. In un mio articolo del maggio 2016 su Libero avevo citato gli intrallazzi clintoniani con i russi, riprendendoli dal New York Times, che ciononostante alcuni mesi dopo diede il suo “endorsement” a Hillary. “Sotto il titolo ‘Il denaro e' affluito alla Clinton Foundation mentre i russi premevano per il controllo di una societa' di estrazione dell'uranio' c'e' una lunga inchiesta sugli intrecci finanziari della famiglia dell'ex presidente e dell'ex segretaria di stato con gli interessi espansionistici del Kremlino in quel settore strategico” scrivevo allora. “Era stata la stessa Pravda, raggiante, a titolare nel gennaio del 2013 ‘L'energia nucleare atomica russa conquista il mondo'. La notizia era che l'agenzia governativa Rosatom aveva preso il controllo di una compagnia canadese con miniere di uranio dall'Asia Centrale al Wyoming negli Usa. A condurre l'affare era stato un gruppo di leader di imprese estrattive canadesi, tra i maggiori finanziatori dei Clinton, che creo', finanzio' e alla fine vendette ai russi una societa' di nome Uranium One. Oltre alle miniere del Kazakhstan, tra le piu' redditizie al mondo, quella vendita, scrive il NYTimes, diede a Putin il controllo di un quinto della produzione potenziale di uranio degli Usa. Essendo un bene strategico con implicazioni per la sicurezza nazionale, l'affare doveva essere approvato da rappresentanti di varie agenzie governative Usa, tra cui primeggiava il Dipartimento di Stato retto dalla Clinton (quella del famoso slogan d'esordio “cara Russia, facciamo il reset delle nostre relazioni”). I russi assunsero il controllo di Uranium One in tre separate transazioni dal 2009 (il primo di Hillary ministro) al 2013, periodo in cui, secondo documenti canadesi, un flusso di cash entro' nelle casse della Fondazione. Il chairman di Uranium One uso' la Fondazione della propria famiglia per fare 4 versamenti per 2,35 milioni, e altri dirigenti fecero donazioni per somme minori. Questi contributi non furono resi pubblici dai Clinton, malgrado l'accordo con la Casa Bianca di rivelare tutti i donatori. Poco dopo che i russi annunciarono l'intenzione di acquistare la maggioranza delle azioni di Uranium One, Bill incasso' 500mila dollari per un discorso presso una banca d'investimento di Mosca, legata al governo e coinvolta nell'affare. L'indagine del NYTimes sulla Uranium One si basa su dozzine di interviste e su rapporti finanziari presso le autorita' di Canada, Russia e Stati Uniti. Qualche connessione tra la Uranium One e la Fondazione Clinton era stata rivelata nel libro ‘Clinton Cash' di Peter Schweizer, del pensatoio conservatore Hoover Institution, ma il NY Times, che lo ha avuto in anticipo, ha tenuto a far sapere che ‘ci ha lavorato sopra con una propria inchiesta'. Quindi, la difesa della Clinton secondo cui gli attacchi del libro ‘sono solo una vasta cospirazione della destra estrema' e' caduta nel ridicolo. Piuttosto, la gente sta facendo uno piu' uno uguale a due: Hillary ha distrutto le sue email da segretaria di stato per coprire anni di intrighi della Fondazione”. Insomma, gli ossessionati dal ‘giallo-fiction Trump & Russia', frustrati per non avere una storia piccante e dettagliata anti Donald, possono dedicarsi al ‘documentario Clinton & Russia', cronaca di fatti verissimi. Ma non mi pare che ci sia in giro l'urgenza, e tantomeno l'onesta' intellettuale, di indagare sul flirt all'uranio tra Hillary e Putin. Glauco Maggi