Il giuramento di Trump e il senso della democrazia americana
L'elezione del presidente meno convenzionale della storia americana è l'occasione di riflettere sulla qualità e sulla natura di una democrazia nata 240 anni fa, la più vecchia e duratura della Terra. Donald Trump entra nella Casa Bianca con un gap negativo di 10 punti di favore popolare, almeno stando al sondaggio Wall Street Journal-NBC secondo cui il 48% lo valuta negativamente e il 38% positivamente – ma lo spettacolo che vedo in TV oggi, 20 gennaio, trascende il personaggio, e va al cuore della cerimonia. Che cosa si celebra nella ritualità del calendario della giornata è la transizione pacifica del potere. Non la vittoria di un partito e la sconfitta di un altro. Essendo The Donald il 45esimo leader eletto, sono 44 volte di fila che l'America assiste, freme, e partecipa, al momento solenne del giuramento con la mano sulla Bibbia di un presidente alla sua prima vittoria (senza contare il giuramento bis di chi ottiene la riconferma 4 anni dopo). Può sembrare ipocrita il tono della totalità dei commentatori di peso, repubblicani e democratici, che sottolineano proprio questa eccezionalità. Non lo è. Non solo perché lo ha detto anche Barack quando ha ricevuto Trump alla Casa Bianca. "È un fatto comune e miracoloso", aveva sintetizzato Ronald Reagan alla sua inaugurazione 36 anni fa: perché si ripete ogni 4 anni da George Washington in poi, e perché il rito ha resistito anche alla Guerra Civile e durante le guerre mondiali. È vero che 69 deputati democratici hanno disertato l'appuntamento del 2017, ma questo atto di "disobbedienza civile" (pur deprecabile), e ancora peggio come quello della protesta dei manifestanti che si è scatenata nelle vie lontane da Capitol Hill per mano dei radicali e degli estremisti anti Trump, sono semmai prove della solidità di tenuta del sistema. Il primo Emendamento è proprio questo, cioè il diritto di pensare diverso, di opporsi (le violenze sono una degenerazione, politicamente suicida per chi le compie, ma totalmente ininfluenti sulla marcia storica del paese). Ma sono l'ex presidente Obama, gli altri ex presidenti (Bush il Giovane, Clinton, Carter), tutti i senatori, tutta la Corte Suprema, che con la loro presenza in piazza, alla testa del milione della folla in fila per ore aspettando la consacrazione, che testimoniano in solennità la consapevolezza orgogliosa dell'America di essere protagonista di una avventura umana unica. Un popolo che è nato dalla rivoluzione anti-inglese per affermare la propria identità, e la propria libertà; un popolo, e la cultura che è maturata nella sua esperienza, che non hanno dimenticato George Washington e i Padri Fondatori. L'America ha l'orgoglio della gelosa difesa della libertà del dissenso e, nello stesso tempo, sa stringersi attorno a chi, vincendo una battaglia serrata, anche acrimoniosa, di idee, ha guadagnato l'investitura di rappresentare tutto il popolo. L'analista politico Charles Krauthammer, uno dei tanti che hanno dibattuto in queste ore di TV non stop che hanno portato i Trumps dalla messa in Chiesa di primo mattino al rituale caffè con gli Obama fino al discorso di insediamento di mezzodì di fronte a Capitol Hill, ha esposto una verità semplice e indiscutibile. "È una giornata che celebra la maestà degli Stati Uniti, è un sacramento civile, non un evento politico". E un conduttore Tv ha lasciato cadere un paragone con l'Europa rivelatore: noi Stati Uniti siamo stati capaci di mantenere il sistema intatto, il che è la miglior garanzia di pace; in Europa invece popoli e paesi sono stati un terreno costante di guerre e divisioni, sempre in preda al rischio di instabilità politica e civile. È vero. L'Europa ha partorito ad est il comunismo e in Germania e Italia e Spagna il nazismo e il fascismo, e cio' spiega l'approccio culturale con cui opinionisti e politici europei - italiani, tedeschi e francesi -, vedono se stessi: sempre in pericolo di ricadute nei baratri della storia. Applicare all'America, per il fatto che l'eletto e' Donald Trump, questa lettura viziata e influenzata dall'esperienza europea e' segno di ignoranza, se non di malafede. Adombrare possibili derive di sfascio istituzionale per il Donald “nazista”, come forse un dittatorello che si mette alla testa di un gregge di pecore cieche, significa scambiare l'elezione di un presidente americano con i passaggi italioti del potere. Per esempio, da Berlusconi a Monti a Letta a Renzi a Gentiloni, senza voti veri, anzi con le regie occulte di presidenti che passano e vanno, e nessuno che lascia un discorso di insediamento che regge 48 ore. Carta per avvolgere il pesce. Non i due secoli e passa dei discorsi di Washington, o il secolo e mezzo di Lincoln, o il mezzo secolo di JFK. Leggere nei fondi di prima pagina dei giornali mainstream nazionali i commenti su Trump, quasi fosse un Grillo qualunque, e' triste. Non offendono e non mistificano tanto lui, quanto l'intero contesto politico-istituzionale americano. di Glauco Maggi twitter @glaucomaggi