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Tutti contro tutti e rischio scissioneDei democratici restano le ceneri

Glauco Maggi
Glauco Maggi

Giornalista a NYC per Libero, autore di Figli&Soldi (2008), Obama Dimezzato (2011), Guadagnare con la crisi (2013), Trump Uno di Noi (2016). Politica ed economia. Autori preferiti: Hayek, M.Friedman, T.Sowell

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Perdere le elezioni per la presidenza e' una sconfitta che lascia sempre il segno, ma quando insieme alla Casa Bianca un partito perde altri governatori (oggi il GOP ne ha 33 su 50, il 50% in piu' dei 22 che aveva nel 2008 quando vinse Obama), non riesce a conquistare il Senato (che era obiettivo minimo dato per scontato) e tantomeno la Camera (il GOP ha ancora 239 deputati su 435), e vede il controllo delle legislature statali ridursi a meno di un terzo (il GOP ha ora la maggioranza in 69 su 99 parlamenti locali dei 50 Stati), non e' piu' solo una sconfitta. E' una disfatta. Le crisi sono occasioni da sfruttare, diceva la saggezza antica, ma tra i moderni democratici pare che l'operazione ricovero sia ben di la' da venire. Paul Ryan, tra i repubblicani, ha avuto il 100% del sostegno da tutti i suoi compagni di partito, trumpiani doc ed anche never-trumpiani, perche' e' facile trovare armonia e unita' dopo un trionfo. La testa di Nancy Pelosi, che guida da 14 anni la truppa dei democratici alla Camera, prima da leader di maggioranza dal 2006 e poi di minoranza dal 2010, cadra', forse, il 30 novembre. Dozzine di parlamentari DEM l'hanno per ora convinta a non tenere le elezioni interne che la Pelosi aveva programmato per giovedi' 17, sperando che avrebbe riottenuto la riconferma subito. Una candidatura che potrebbe spuntare per tentare di spodestare la californiana Pelosi e' quella di Tim Ryan (nessuna relazione con il Paul Ryan repubblicano), che rappresenta l'Ohio. Nel suo distretto la media dei redditi e' di 57mila dollari, che e' meno della meta' dei 136 mila dollari del reddito medio di San Francisco, dove vivono gli elettori della Pelosi. La guerra nei DEM, insomma, e' tra l'anima ultraliberal ed elitaria dei californiani e dei newyorkesi da una parte e quella piu' popolare dei rappresentanti degli stati operai e contadini del Wisconsin, del Michigan, della Pennsylvania, dell'Ohio, dello Iowa e dell'Indiana dall'altra. E' in questi Stati, tutti vinti da Obama nel 2012, che Trump ha seminato e raccolto la sua vittoria. Ma se e' comprensibile che i Democratici in questi Stati rivendichino un ruolo di maggiore peso nel partito, non e' meno vero che i ricchi finanziatori liberal sono sulle due coste – a Los Angeles e a Manhattan – e soprattutto sono piu' interessati alle battaglie verdi contro il petrolio, il gas, il carbone e il global warming, e a combattere le armi e la NRA, che non a difendere le miniere e le fabbriche del Midwest. La Pelosi, che e' l'espressione classica della sinistra in cachemire, lottera' con le unghie per mantenere la leadership attuale, puntando a continuare a rappresentare la coalizione che fece vincere Obama: ispanici, neri, sindacalisti del settore pubblico –insegnanti e amministratori della burocrazia -, attivisti ambientalisti, filo-aborto e dei diritti dei gay. Ma la Clinton, che aveva cercato di vincere con le stesse forze, ha perso tanti pezzi per strada, e cio' dimostra che quella strategia ha funzionato soltanto una volta, e solo perche' il suo titolare aveva qualita' personali (afro-americano, e senza scheletri vistosi nell'armadio). Il partito post Hillary, pero', e' anche e soprattutto il partito di Bernie Sanders e di Elizabeth Warren. Questa ala ‘rivoluzionaria' , che malgrado il totale impegno dei due senatori rossi nella campagna elettorale dopo la nomina della Clinton, non e' riuscita a portare le truppe capaci di sconfiggere Trump alle urne, adesso vuole impadronirsi del partito, oppure “mettersi in proprio”. Un ex ministro del lavoro di Bill Clinton, Robert Reich, ha ipotizzato un nuovo partito spaccando i DEM, se non si radicalizza la linea in chiave paupero-operaista. Sanders fa di peggio: appoggia alla carica di leader del Comitato Nazionale Democratico il deputato del Minnesota Keith Ellison, il primo musulmano eletto dieci anni fa in Congresso, ex membro della Nation of Islam dell'antisemita e antibianco Louis Farrakhan. Ma anche la Warren, e cio' che sconcerta davvero persino il futuro leader della minoranza dei senatori Charles Schumer, ebreo, vogliono dare ad Ellison, 50 anni, il posto che ha avuto durante la campagna del GOP Reince Priebus, oggi capo staff di Trump. Un incarico chiave, dunque. Il personaggio Ellison, afro-americano ex cristiano convertito a Maometto, ha trascorsi inquietanti. Dall'appoggio ad Hamas a questa dichiarazione pubblica, fatta nel 2007 davanti a 300 membri di un gruppo di atei organizzati, in cui ha subdolamente accostato George Bush a Hitler, partendo dalla tragedia dell'11 settembre paragonata all'incendio del parlamento di Berlino: “E' grossomodo come l'incendio del Reichstag, e' qualcosa che mi ricorda quella cosa la'”, ha detto Ellison. “Dopo che il Reichstag e' stato bruciato, loro (Hitler e i nazisti NDR) incolparono i comunisti di cio', e questo mise il leader (Hitler) di quel paese in una posizione in cui aveva sostanzialmente l'autorita' di fare qualsiasi cosa volesse”. Se Ellison, musulmano vicino alla Brotherhood, diventera' il numero uno del partito Democratico, e se la Pelosi conservera' il posto da leader dei Democratici alla Camera, le prospettive di recupero degli obamiani sconfitti potranno poggiare soltanto su un suicidio politico del GOP e della leadership trumpiana. Oltre a queste due figure del vertice DEM, radicali e obiettivamente lontane dall'America centrista, pragmatica e indipendente che si e' votata a Donald, in cantiere ci sono altre manovre destinate a caratterizzare i DEM come forza estremista. Sono i gruppuscoli di protestanti di strada contro Trump, che vogliono fare il Tea Party di sinistra, e che contro i Democratici dell'establishment sconfitti al voto, considerati troppo moderati, vogliono presentare alle primarie candidati duri e puri, sinistri DOC che stanno con Sanders o alla sua sinistra. Sono i militanti di Black Lives Matter e di Occupy Wall Street, che dagli scontri di Ferguson alle occupazioni delle universita' si sono riciclati oggi in dimostranti contro il Trump presidente, ossia contro il voto democratico del popolo. E dalle sfilate anche violente, e coccolati sempre piu' dall'apparato DEM in Congresso, le nuove leve nate dalle ceneri di Hillary si preparano alla rivincita elettorale. A vedere questo progetto di creare i “Tea Party di sinistra” i repubblicani devono sentirsi in una botte di ferro. L'anima del teapartismo vero, conservatore, e' una maggioranza silenziosa di gente disorganizzata e arrabbiata, ma che ama il proprio paese, rispetta la legge e l'ordine, crede nella democrazia, odia le tasse e il grande governo ingombrante che decide tutto. A sinistra queste idee sono reiette e viene da ridere a pensare a quando i soloni dei media facevano la lezione al GOP, mentre Obama imperversava con gli ordini esecutivi senza avere i voti in Congresso, dicendo che “il paese ha bisogno di un partito conservatore serio”. Adesso c'e'. Pensino a come si e' ridotto il partito di Obama, piuttosto. di Glauco Maggi

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