Tutti a parlare dei repubblicani divisiMa Hillary è ancora lì a sudare sette camice
La stampa liberal e' tutta tesa a scrutinare quanto sia impresentabile Trump e quanto sia diviso il GOP. Ma e' sempre piu' evidente che l'ossessione di parlare male dell'avversario ha il fine di distrarre il pubblico dalla situazione disastrosa della propria nominata preferita. Aspettiamo di capire domani, giovedi' 12, se una possibilissima fumata bianca, o almeno un armistizio tra Trump e lo Speaker della Camera Paul Ryan che si vedono a Washington, sgonfiera' le speranze dei DEM in quella “frattura irreparabile nel partito”, come e' gia' stata descritta dai commentatori mainstream italiani (in America non c'e' affatto la stessa certezza, neppure sul New York Times). Nell'attesa del futuro ipotetico repubblicano, diamo allora noi il dovuto risalto ai FATTI della campagna democratica. Fanno male alla Clinton, ovviamente, esponendone la fragilita' delle sue chance a novembre, ma hanno il pregio di essere incontrovertibili. Ieri, Hillary ha vinto in Nebraska ma ha perso un'altra primaria, in West Virginia, e si tratta della sconfitta numero 19, solo 4 meno dei 23 Stati vinti. Sanders l'ha staccata di 15 punti, 51% a 36%, e alla chiusura dei seggi ha fatto lo stesso discorso delle 18 vittorie precedenti: “Siamo in questa corsa per restarci fino alla fine per vincere la nomination democratica”. E' praticamente impossibile che Bernie realizzi il suo obiettivo, visto che ha 1469 delegati, contro i 2239 di Hillary, e che per raggiungere il traguardo di 2383, necessario per vincere alla prima votazione nella Convention di Filadelfia, il senatore rosso deve conquistare il 66% dei delegati ancora in palio nelle primarie che restano. E' un miraggio, ma se anche ci riuscisse, i famosi “superdelegati” (dirigenti scelti dal partito a prescindere dagli esiti elettorali negli Stati) sono per la stragrande maggioranza gia' schierati con la Clinton e la farebbero vincere. Ma il fatto stesso che a meta' maggio, a tre settimane dalla fine, la corsa democratica sia ancora aperta e' un qualcosa che nessuno avrebbe lontanamente ipotizzato 10 mesi fa. E la prova della sua debolezza. Lo stesso terremoto e' successo nel GOP, dove Donald ha sovvertito ogni pronostico. Ma con due differenze. La prima e' che, ai primi di maggio, l'outsider miliardario aveva gia' messo in porto il suo successo a gonfie vele, mentre la ex-tutto (First Lady, senatrice, segretaria di stato) sta ancora annaspando contro vento oggi. La seconda, che tutti gli osservatori ad occhi aperti ammettono, e' il fattore-entusiasmo che gioca in senso inverso nei due partiti. Nel GOP Trump e' il candidato nuovo, la sorpresa. E' quello che riempie gli stadi, che ha vinto 30 Stati (contro i 12 di Cruz), che e' a 100 delegati di distanza dal traguardo, che dalle primarie di New York ha sempre ottenuto, nelle sette successive elezioni (compresi il Nebraska e il West Virginia di ieri) oltre il 50% dei voti, e anche oltre il 60% e il 70%. Nessuno contesta che sia lui il leader del GOP, e tra i repubblicani e i conservatori riluttanti non circola alcun nome alternativo, nessuno che ecciti gli scontenti. Nei DEM e' l'opposto. La Clinton e' la predestinata, ma il suo procedere e' zoppicante, per usare un eufemismo. E' sostenuta da una maggioranza declinante di democratici (nella media nazionale di RCP di oggi e' appena sopra il 50%, contro il 44% per Sanders), rischia di perdere altre primarie che ne minerebbero ancor piu' l'immagine. E le brutte notizie sulla sua campagna si alternano a quelle pessime sullo scandalo delle email e del server. Tra i DEM la carica e la passione sono dalla parte di chi non avra' la nomination, Bernie. Gli exit poll in West Virginia hanno dato la misura oggettiva, e allarmante per i DEM, di quanto Hillary abbia ceduto in smalto e fiducia, e soprattutto in voti, rispetto al suo stesso passato. Ieri ha perso contro il vecchio socialista per 36 a 51, mentre nel 2008 aveva distrutto l'emergente Obama per 66,9 a 25,7. In numeri, 8 anni fa ebbe 240.890 votanti, mentre ieri ne ha presi 84.176, un declino del 65%. Perdere i due terzi del proprio elettorato in uno Stato tradizionalmente clintoniano, bianco e operaio e' un'impresa. E se e' vero che Hillary ci ha messo del suo, avendo detto tempo fa “manderemo fuori dal business le miniere di carbone e i minatori”, questa non era stata solo una gaffe da principianti, ma il prezzo pagato ai miliardari verdi ambientalisti sui cui finanziamenti lei conta per vincere in California. Ancora peggio per la Clinton, se prende piede il trend del disamore, e' che dagli exit poll e' emerso che il 33% dei DEM in West Virginia hanno detto che voteranno Trump in novembre, e solo il 44% votera' Clinton. Ma non dovevano essere i repubblicani NeverTrump a tradire il GOP e a consegnare la Casa Bianca a Hillary? di Glauco Maggi