Il miracolo di Donald Trump: così va alla conquista della nomination
La rivoluzione di Trump nella sua campagna, dopo il trionfo di New York, e' in pieno svolgimento. Ha promesso di diventare un candidato sempre piu' tradizionale e disciplinato, lo vedremo parlare con il teleprompter come fanno tutti gli altri, e usera' testi scritti da uno speechwriter su temi specifici. Il primo sara' un discorso sulla politica estera. Inoltre, sta assumendo esperti professionisti che guideranno la fase finale e decisiva delle primarie per aiutarlo a raccogliere delegati ovunque, come ha fatto Cruz finora. Il primo acquisto, il piu' importante, e' stato Paul Manafort, veterano di tante campagne presidenziali. Poi ha aggiunto un ex braccio destro di Scott Walker, il governatore del Wisconsin che con il suo appoggio a Ted Cruz aveva inferto la sconfitta piu' sonora a Donald in tutta la sua campagna. Trump ha gia' compiuto il miracolo politico piu' rimarchevole nella storia della politica americana arrivando dove e' arrivato, con 848 delegati nei primi 35 stati. Un anno fa c'erano 18 candidati nel GOP, tutti con esperienza politica tranne Ben Carson (che e' ora nel suo schieramento), e lui ne ha via via eliminati 16 con metodi verbalmente brutali, ma alla luce dei fatti estremamente efficaci. Ha anche gia' messo nell'impossibilita' di tagliare il traguardo dei 1237 gli ultimi due restati in lizza, il senatore texano Ted Cruz (che ha 559 delegati) e il governatore dell'Ohio John Kasich (che ne ha 148), restando il solo con la chance matematica di raggiungere il numero che gli darebbe la vittoria automatica il 21 luglio a Cleveland. Adesso abbiamo tutti “digerito” il processo con cui Trump ha (quasi) eliminato l'intera nomenclatura di vertice del partito repubblicano: nomi “sacri” come Jeb Bush e Mitt Romney (che si era ritirato appena prima di iscriversi ufficialmente alla corsa per paura di Jeb, e di recente ha fatto il solletico a Donald attaccandolo dallo Utah); ma anche altri governatori collaudati e vincenti, di ieri o in carica ancora oggi, stelle nel firmamento del GOP come Rick Perry, Chris Christie, Scott Walker, Mike Huckabee; e ha infine oscurato l'astro nascente, coccolato dalle elite del GOP, il senatore ispanico Marco Rubio. Ma, a ripensarci, l'impresa di Donald e' stata davvero memorabile. Sostenere che si sia trattato di un fenomeno generato dall'insoddisfazione dell'elettorato conservatore verso i vertici, o dalla rabbia generale che cova nella meta' dell'America che non ne puo' piu' di Obama e di dove stia portando il paese, e' negare i meriti soggettivi del personaggio. E' vero che i media hanno dato a Donald un palcoscenico ideale per la sua performance, regalandogli spazio e pubblicita'. Ma e' il magnate degli immobili, che e' stato capace di riciclarsi in stella della Tv con il programma “The Apprentice”, ad essere riuscito a costruirsi questa immagine. E' lui che aveva teorizzato, quando pensava a fare i soldi (e li ha fatti, oggi dice di avere 10 miliardi di dollari di assets), che “non esiste una cosa che si chiama ‘eccesso di visibilita' ‘'. L'idea di “pensare in grande”, un mantra che lo accomuna a Silvio Berlusconi, e' stata il trampolino per i suoi successi, prima quelli commerciali e poi, quando ha deciso di fare il salto, quelli politici. Quando, sul palcoscenico dei primi dibattiti televisivi, strapazzava gli avversari uno per uno, usando anche offese scomposte e volgari contro chi rischiava di oscurarlo, commetteva bestemmie di galateo personale, ma lo faceva sapendo quello che faceva. Come un perfetto animale mediatico che percepiva le vibrazioni di feeling emesse dal pubblico, annusava le vittime destinate per riservare ad ognuna il trattamento spietato che serviva alla loro eliminazione: Jeb era di poca energia, la Carly Fiorina aveva una faccia brutta, Marco Rubio era il piccolo Marco sudato, di Ben Carson mise in dubbio la religiosita'. Certo, ci voleva un elettorato esasperato per i compromessi e le ‘buone maniere' della politica politicante per potersi ritagliare un esercito di fedelissimi irriducibili, attratti dal suo messaggio centrale (“fare ancora grande l'America”) e dalla sua personalita' spaccona di miliardario. E sordi alla sostanza minuta degli slogan che garantivano i titoli dei giornali. Questa falange non lo ha mai abbandonato, e dal 35% che gli e' bastata per vincere Stato dopo Stato quando i concorrenti erano numerosi e si spartivano il resto, con nessuno capace di emergere nel campo delle candidature “normali'” , e' alla fine balzato al capolavoro del 60% nella sua New York. E qui ha capito che va girata la pagina. Ora l'obiettivo per lui e' unire il partito dietro di se'. Se sapra' fare il camaleonte nei 15 Stati che mancano come ha fatto il leone che si e' sbranato tutti nei primi 35, Trump completera' il miracolo con la nomination. Ma nella storia ci e' gia' entrato. di Glauco Maggi