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Il colpo gobbo di Marco Rubio: ha più senatori di Jeb Bush

Glauco Maggi
Glauco Maggi

Giornalista a NYC per Libero, autore di Figli&Soldi (2008), Obama Dimezzato (2011), Guadagnare con la crisi (2013), Trump Uno di Noi (2016). Politica ed economia. Autori preferiti: Hayek, M.Friedman, T.Sowell

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Stanotte c'e' il dibattito su MSNBC (il canale Tv piu' di sinistra di tutti) tra Hillary e Sanders, i due residui candidati DEM, e sabato 6 ci sara' quello del GOP su ABCtv, con sette o otto candidati (dipende se sara' ammessa Carly Fiorina, mentre Rick Santorum, Rand Paul e Mike Huckabee si sono ritirati dalla corsa dopo lo Iowa). Lunedi' 8 si avranno quindi i sondaggi dell'ultima ora, alla vigilia della primaria di martedi' 9 in New Hampshire, aggiornati all'andamento delle performance degli sfidanti. Intanto, i risultati del primo caucus hanno gia' prodotto un certo terremoto tra i senatori repubblicani a Washington, con il significativo sorpasso di Marco Rubio su Jeb Bush nella conquista degli endorsement (gli appoggi formali). Il senatore della Florida, che pure essendo arrivato terzo e' stato giudicato da piu' parti il vero vincitore in Iowa, puo' contare oggi su cinque senatori in carica schierati con lui, mentre Jeb Bush e' fermo ai quattro che gia' aveva. Con Rubio ci sono Cory Gardner (Colorado), Jim Rish (Idaho), Steve Daines (Montana), Pat Toomey (Pennsylvania) e il senatore afro-americano della Carolina del Sud Tim Scott. Con Bush ci sono Thad Cochran (Massachusetts), Susan Collins (Maine), Dean Heller (Nevada) e Lindsay Graham della Sud Carolina, che e' anche un ex candidato presidenziale uscito quasi subito di scena. Anche Rubio ha guadagnato il sostegno di un ex rivale, Rick Santorum, ex senatore, che appena dopo il discorso del proprio abbandono di due giorni fa ha annunciato la scelta del giovane ispanico come suo preferito. Questi “endorsement” da parte di uomini politici in attivita' non sono solo atti simbolici di schieramento, ma comportano anche un impegno concreto, con i benefici e i rischi annessi. Chi si dichiara a favore di qualcuno, infatti, di solito rilascia anche interviste, fa comizi, scrive articoli per motivare la propria scelta. Viene considerato un “surrogato” del candidato in corsa, e gioca quella parte con in testa due obiettivi: 1) far vincere il prescelto, che ricordera' il suo appoggio e (sperabilmente) ricambiera' , 2) mettere la propria faccia a fianco di quella del prescelto, convinto di migliorare cosi' la propria immagine di fronte agli elettori del proprio stato per la rielezione. Se uno, in altre parole, pensa di fare del male a se stesso dando l'endorsement ad un certo personaggio sicuramente non lo fa. E qui veniamo a cio' che puo' sembrare un'anomalia ma non lo e': il senatore Ted Cruz, anche dopo aver vinto il caucus in Iowa scavalcando persino Trump, non ha avuto finora un solo endorsement da nessuno dei suoi 53 colleghi senatori repubblicani. Nessuno scommette su di lui, nessuno si azzarda a schierarsi dietro di lui. Perche'? Trump lo ha detto senza peli sulla lingua: “In Congresso i suoi colleghi lo odiano”. E' vero che, epidermicamente, Cruz ispira piu' antipatia che simpatia umana nel pubblico repubblicano, ma l'isolamento in cui si trova in Congresso e' eminentemente politico: nessuno nel GOP crede, almeno in questo stadio preliminare della corsa in cui gli endorsement pesano davvero, che Cruz possa essere eletto a novembre. Nessuno pensa che Cruz sia una puntata che vale il rischio. La “eleggibilita'” di un candidato e' un valore impalpabile frutto di tante componenti, e l'ostracismo dei suoi stessi compagni di partito e' un “allarme rosso” chiarissimo per tutti. Non a caso i DEM fanno girare la speranza che sia lui il nominato del GOP. Bisognera' ora vedere se alla prova del New Hampshire gli elettori faranno il bis dello Iowa, deludendo il favoritissimo Trump e premiando Cruz: l'ultimo sondaggio uscito ieri (Harper Polling) ha visto Bush salire al secondo posto con il 17%, dietro a Trump con il 31%, mentre Rubio e' al 10% e Cruz al 9%. La partita e' ancora tutta da giocare, insomma, e Ted la deve affrontare in solitaria. A proposito di “Ted”, la storia del suo nome e' intrigante perche' suggerisce un confronto con Obama. Fino a 13 anni Rafael Edward Cruz aveva un nomignolo ispanico, Felito, che decise di abbandonare facendosi chiamare Ted, diminutivo del suo secondo nome Edward. Nato in Canada da madre americana e da padre cubano, Cruz voleva essere 100% americano (soprattutto non voleva essere preso in giro dai compagni di scuola, visto che Felito fa rima con Fritos, Cheetos, Doritos, e Tostitos, popolarissimi brand di merendine americane). Ted non poteva immaginare che, oltre 30 anni dopo, l'essere, e l'apparire, di “etnicita' diversa” potesse essere un plus per la carriera. Ricordate invece la storia opposta di Obama? Allevato alle Hawaii dai nonni bianchi (i genitori della mamma) lui era per tutti Barry, nomignolo per Barack Hussein. Adolescente, annusato il potenziale di successo politico nell'essere 100% afro-americano, abbandono' Barry e divenne Barack Obama, un nome un passaporto politico. di Glauco Maggi  twitter @glaucomaggi

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