Quando Montanelli era per il suicidio assistito Cappato aveva i pantaloni corti
La morte assistita secondo il grande Indro
“Deciderò io come quando morire…”. Lo ricordano in pochi, ma Indro Montanelli, cronista invincibile nonchè ateo perfetto, vedeva nel suicidio assistito un'estrema frontiera della libertà. In tema di dibattito sul diritto alla morte, il Vecchio Cilindro diventava un miliziano implacabile. Mentre in tv i tiggì e gli speciali d'informazione parlano del caso Cappato /Dj Fabo (consclusosi con un'assoluzione del politico: si può assistere, secondo la Consulta, chi voglia, in particolari casi, suicidarsi) spunta un articolo pubblicato sul Corriere della sera, Il Tabù caduto, i soliti bigotti, datato 2000, un Montanelli vicino al crepuscolo (sarebbe morto l'anno dopo, a 92 anni) accoglieva con gioia la caduta sul pregiudizio dell'eutanasia. Allora non esisteva la sfumatura semantica del “suicidio assistito”, e Marco Cappato era solo un radicale libero con i calzoni corti. Eppure Indro aveva iniziato la propria difesa della morte assistita parlando di un'indagine delle Fondazione Floriani che fotografava l'eutanasia “in lenta ma inesorabile crescita”. E discettava sui “sei anni di galera inflitti (dopo il riconoscimento di tutte le attenuanti compresa quella delle seminfermità mentale che l'imputato non chiedeva, anzi rifiutava) a un disgraziato che aveva strappato il tubo dell'ossigeno di bocca alla moglie ridotta allo stato vegetale, e pensare che ai piromani colti in flagrante che stanno distruggendo il paese si esista ad appioppare qualche mese di detenzione”. Per sostenere la tesi oggi acclarata dalla Corte Costituzionale, Montanelli richiamava un documento del consiglio comunale di Torino che mirava alla depenalizzazione dell'eutanasia; ed evocava l'unica, coraggiosa proposta di legge sul tema firmata, allora, dei Verdi Mancini e Carella. Era, Indro, talmente preso dalla vicinanza all'argomento, che, di lì a poco, participò perfino, alla sua età, ad un dibattito all'Università Statale di Milano, in cui non perorò esattamente il “diritto al suicidio”: perché “il suicidio - spiegò - è una cosa che non ha né diritti né doveri. Di fronte ad esso ci sono soltanto due sentimenti: di pietà, di enorme pietà, per lo stato di disperazione che ha condotto la vittima al suicidio. E di rispetto. Di altrettanto rispetto per il coraggio che ha chi resta vittima di questa cosa”. Il vecchio cronista aspirava a vedere, magari prima della propria dipartita, uno spiraglio di luce, almeno un progetto, una bozza di legge sul famigerato fine vita. Ma lo scetticismo, in lui, prevaleva sempre sulla speranza: “Non facciamoci illusioni: tutto questo rimarrà soltanto sulla carta, sommerso da un diluvio di nobile e virtuose parole sulla sacralità della vita e l'intoccabilità deontologica del giuramento di Ippocrate (che Ippocrate, ne sono sicuro, non ha mai formulato). Ma nessuno prenderà l'iniziativa di una riforma della legge vigente. In Parlamento maggioranza e opposizione concordamente si defileranno perché una cosa è manifestare in favore degli omosessuali, roba che fa festa, allegria, 'visibilità' e, di conseguenza, voti. Altre cose è parlare di morte: argomento che, anche se non procura più scomuniche, rischia di farti passare per jettatore, e voti non porta” . Da lì l'espressione di una grande riconoscenza nei confronti di Umberto Veronesi, allora ministro delle Sanità il quale, sfidando fatwe religiose d'ogni genere, aveva almeno dichiarato la fine del tabù dell'eutanasia (“Parliamone”). Indro interpretava così il pensiero elegante ma formalissimo dell'oncologo: “Paese cattolico. Noi non abbiamo la forza di cambiare la legge, come hanno fatto in Olanda. Ma se il tabù è caduto e se ne può parlare in libertà, sarà pure per dire che contro il diritto del paziente (questo sì davvero sacrosanto) di decidere fino a che limite le sue forze lo dispongono all'accettazione delle sofferenze fisiche e morali di un'agonia senza speranza, le arroganto obiezioni dei bigotti sia delle Chiesa che della Scienza sono destinate alla sconfitta, anche se ancora lontana. Parliamone, quindi, parliamone”. Se ne parlò. Anche se il Corriere non lo appoggiò in questa sua ossessione. Indro era laico dentro. Sciveva: “Lo confesso: io non ho vissuto la mancanza di fede con la disperazione di un Prezzolini (...) Ma l'ho sempre sentita come una profonda ingiustizia che toglie alla mia vita, ora che ne sono al rendiconto finale, ogni senso”. Era la fine del 2000. Mesi dopo, secondo affermazioni di Cesare Romiti e successivamente del cardinal Ravasi, Indro avrebbe ricevuto “il dono di una morte autenticamente umana” e sarebbe “morto sereno, a seguito di una riflessione religiosa”, che tanto sembrava assomigliare ad una conversione. Ma di questo non si sono mai avute prove concrete. E, soprattutto, è un'altra storia…..