Cerca
Cerca
+

Italian Detective, l'Italia delle corna perdute

Francesco Specchia
Francesco Specchia

Francesco Specchia, fiorentino di nascita, veronese d'adozione, ha una laurea in legge, una specializzazione in comunicazioni di massa e una antropologia criminale (ma non gli sono servite a nulla); a Libero si occupa prevalentemente di politica, tv e mass media. Si vanta di aver lavorato, tra gli altri, per Indro Montanelli alla Voce e per Albino Longhi all'Arena di Verona. Collabora con il TgCom e Radio Monte Carlo, ha scritto e condotto programmi televisivi, tra cui i talk show politici "Iceberg", "Alias" con Franco Debenedetti e "Versus", primo esperimento di talk show interattivo con i social network. Vive una perenne e macerante schizofrenia: ha lavorato per la satira e scritto vari saggi tra cui "Diario inedito del Grande Fratello" (Gremese) e "Gli Inaffondabili" (Marsilio), "Giulio Andreotti-Parola di Giulio" (Aliberti), ed è direttore della collana Mediamursia. Tifa Fiorentina, e non è mai riuscito ad entrare in una lobby, che fosse una...

Vai al blog
Italian Detective Foto: Italian Detective
  • a
  • a
  • a

«Chissà come la prenderanno la moglie e la figlia?» «E vabbè, come si chiama la moglie, Madre Teresa?...». Così va la tv. Uno cerca la ruvidezza di Philip Marlowe nelle notti livide di New York e si ritrova col cinismo di un detective dell'Aquila che opera nelle strade chiassose di Tor Bella Monaca. Sta, qui, in due battute su un marito fedifrago scambiate tra due investigatori  nell'abitacolo di un'utilitaria da pedinamento a Roma, l'essenza di Italian Detective (Rai 4, sabato prima serata e domenica terza), primo docureality sulle agenzie d'investigazione private italiane. Prima d'ora non era mai stato proposto un format sugli «occhi privati« nostrani. Ci sarà stato un motivo. Il motivo è  la noia. E la piccineria della  realtà. Nulla da rimproverare alla confezione pulita del programma, per carità. Nè al piglio della protagonista Rita,  adusa a frequentare i poligoni di tiro dove arruola manovalanza; una donna spiccia che se la batte in ufficio col socio giovane e innovatore mentre il figlio ventenne  fa lo stage da detective piazzando cimici e smanettando su Google Street. Rita è pure simpatica. È una signora normale che riceve i clienti con le blandizie di una vecchia zia ( sullo scaffale le statuine di tre scimmiette, non vedo-non sento-non parlo), si preoccupa che le madri  incoscienti scappate di casa non abbandonino i figli a un cupo destino; fa la posta, col moccio al naso, alle rovinafamiglie bionde, e sguinzaglia le amiche-colleghe a scattar foto che comprovino le  infedeltà. E  non è sbagliata, a livello di prodotto, neanche la parentesi aquilana dell'investigatore coprotagonista che torna nella città natale dopo il terremoto, e ci apre  perfino un ristorante.  No, il tedio riguarda proprio la tematica del lavoro del dtecective. Uno si nutre a polizieschi americani,  sogna il delitto alla Chandler, «come un sasso lanciato nello stagno  , cazzotti, sparatorie, ammazzamenti e emozioni a nastro; e, invece, qui si ritrova un ragazzo benestante che fa pedinare la futura moglie; un marito disperato la cui moglie abbandona il tetto coniugale; coppie di amanti della pausa pranzo che si sbaciucchiano come adolescenti ai semafori. Storielle  infime, corna infinite, la piccola umanità di  Signore e signori di Pietro Germi.  Una tristezza strordente che, onestamente, impedisce di prolungare la visione fino ai 50 minuti concordati...

Dai blog