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La lezione d'onore del Generale Della Rovere

nuova fiction di successo

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Premettiamo: "Il Generale Della Rovere" dal racconto omonimo di Indro Montanelli è una lettura che conosciamo a memoria; l'esperienza "filtrata" di Montanelli durante la sua prigionia a San Vittore oltre a una  pregnanza letteraria è un esempio di come ogni italiano dovrebbe comportarsi nei momenti d'emergenza (cioè assai spesso). Il Generale Della Rovere ha ripristinato in tv il senso dell'onore. Specie su Raiuno, di questi tempi, è merce rara. «Noi tedeschi giudichiamo questo paese dai generali veri, ma è su quelli falsi che va misurato...». É nella commossa scena finale della fiction di Raiuno che è anche la frase finale del racconto ; è qui, nell'onore delle armi concesso a un piccolo truffatore italiano Giovanni Bertone, riscattato nella morte impersonando un ufficiale; è nel sussurro tra il colonnello tedesco Muller e il sottoposto che si condensa la miglior fiction di Raiuno degli ultimi tempi. “Il generale Della Rovere”, in un momento di crisi delle generaliste, ha vinto due serate con 5 milioni share del 20%. Ed ecco tutti qui a chiederci come è possibile che la storia ambientata nel '44 d'una spia dei tedeschi che si finge il capo della Resistenza per carpire informazioni e che muore invece di denunciare un capo partigiano (Fabrizio) possa ancora squassare le coscienze. Non siamo mica nel '59, quando la versione cinematografica di Rossellini, vinse il Leone d'oro fischiata dalla destra e ripudiata -un po'- dallo stesso Montanelli; e la vinse ex aequo con “La grande guerra” di Monicelli, stessa storia di piccoli uomini di grande coraggio. E Pierfrancesco Favino, talento proteoforme, certo non è il Della Rovere nella cui divisa consegnata in cella dalla moglie contessa s'infilò Vittorio De Sica che al cine si chiamava Emanuele Bardone. Favino non è nemmeno Mario Carotenuto che interpretò Della Rovere a teatro benedetto da Montanelli. E le scene granguignolesche e i tedeschi che parlano come le Sturmtruppen sono onestamente macchiettistici. Eppure, anche per chi -come noi- non ha respirato mai l'aria patria in famiglia tra padri e nonni generali, questa fiction è uno sbuffo di benefica dignità nazionalista. Quando Favino, troppo immedesimatosi nel ruolo scrive sulla cella “quando non sai qual è la via del dovere scegli la più difficile” un groppo ci saltella in gola. E quando il partigiano Fabrizio si produce in un'invettiva contro l'indifferenza alla ditattura degna del Discorso sulla servitù volontaria di Étienne de La Boétie (Chiarelettere), be' ricomciamo a masticare speranza. Di 'sti tempi, grasso che cola. Il senso dell'onore, specie su Raiuno, di questi tempi, è merce rara. «Noi tedeschi giudichiamo questo paese dai generali veri, ma è su quelli falsi che va misurato...». É nella commossa scena finale del “Generale Della Rovere” (Raiuno) che è anche la frase finale dell'omonimo racconto di Indro Montanelli; è qui, nell'onore delle armi concesso a un piccolo truffatore italiano Giovanni Bertone, riscattato nella morte impersonando un ufficiale; è nel sussurro tra il colonnello tedesco Muller e il sottoposto che si condensa la miglior fiction di Raiuno degli ultimi tempi. “Il generale Della Rovere”, in un momento di crisi delle generaliste, ha vinto due serate con 5 milioni share del 20%. Ed ecco tutti qui a chiederci come è possibile che la storia ambientata nel '44 d'una spia dei tedeschi che si finge il capo della Resistenza per carpire informazioni e che muore invece di denunciare un capo partigiano (Fabrizio) possa ancora squassare le coscienze. Non siamo mica nel '59, quando la versione cinematografica di Rossellini, vinse il Leone d'oro fischiata dalla destra e ripudiata -un po'- dallo stesso Montanelli; e la vinse ex aequo con “La grande guerra” di Monicelli, stessa storia di piccoli uomini di grande coraggio. E Pierfrancesco Favino, talento proteoforme, certo non è il Della Rovere nella cui divisa consegnata in cella dalla moglie contessa s'infilò Vittorio De Sica che al cine si chiamava Emanuele Bardone. Favino non è nemmeno Mario Carotenuto che interpretò Della Rovere a teatro benedetto da Montanelli. E le scene granguignolesche e i tedeschi che parlano come le Sturmtruppen sono onestamente macchiettistici. Eppure, anche per chi -come noi- non ha respirato mai l'aria patria in famiglia tra padri e nonni generali, questa fiction è uno sbuffo di benefica dignità nazionalista. Quando Favino, troppo immedesimatosi nel ruolo scrive sulla cella “quando non sai qual è la via del dovere scegli la più difficile” un groppo ci saltella in gola. E quando il partigiano Fabrizio si produce in un'invettiva contro l'indifferenza alla ditattura degna del Discorso sulla servitù volontaria di Étienne de La Boétie (Chiarelettere), be' ricomciamo a masticare speranza. Di 'sti tempi, grasso che cola. Ps Consigliamo per i più giovani l'edizione del racconto Bur con intervista di Michele Brambilla all'autore. Oddio, a dire il vero consiglieremmo l'intera produzione del vecchio CilIndro...

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