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Vasco Rossi, la "macchia" fa parte del genio

le uscite del Blasco

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La macchia. Nella “Macchia umana” l'immenso Philip Roth descriveva le tracce, i segni, le ferite -le macchie appunto- che lo scorrere del tempo lascia e imprime su di noi. E c'è, probabilmente, una verità metaforica anche nella “macchia nera” («dolori pazzeschi, non sanno cos'è...»; non un tumore, fortunatamente) che si muove come un alieno tra le scapole di Vasco Rossi, ne attraversa lo sterno, spinge sotto quei polmoni che hanno respirato, finora, successi insolenti e vita spericolata. Il caso della “macchia” di Vasco denunciata dal Corriere della sera  -“massa” nella versione rilasciata a Repubblica-  non ha probabilmente nulla di patologico. É, semmai, il simbolo freudiano di un cambiamento. Che prima vede il nostro massimo cantautore vivente prima dimissionarsi da rockstar ai microfoni Rai di Vincenzone Mollica; poi anticipare la messa in onda su Raiuno di “L'Ape Regina”, video-poesia scritta e recitata dal figlio Luca; di seguito polemizzare col collega Ligabue apostrofato come “un bicchiere di talento in un oceano di presunzione”; infine preannunciare al Festival di Venezia il documentario- evento speciale  “Questa storia qua”, biografia del mito da Zocca al palcoscenico mondiale con tanto di biglietti prevenduti sul web. Un'attività frenetica, per chi ha sempre consumato la propria leggenda da eremita del rock. Ecco, per qualcuno oggi tutto questo fibrillare, questo crescendo rossiniano -anzi vascorossiano- di notizie sul Blasco potrebbe apparire un'astuta  autopromozione. Il che sarebbe anche legittimo, intendiamoci: in fondo tutti, da Celentano a Jovanotti hanno sempre distillato sè stessi in una sorta di effetto- prevendita. E, per dirla tutta, anche quest'inedito, forsennato navigare su Facebook tra confessioni di droghe assunte («Assumo da tempo un cocktail di antidepressivi, psicofarmaci, ansiolitici, vitamine e altro studiato da un'équipe di medici, che mi mantiene in questo equilibrio accettabile»), renderebbero il Blasco una specie di Achab alla ricerca disperata della sua Moby Dick. Pure se « alla fine Achab affonda insieme alla balena bianca che caccia, e con lui il suo equipaggio...»,  affermava ieri Giovanni Serpelloni, medico veronese a capo del Dipartimento antidroga della Presidenza del Consiglio, critico nei confronti del Blasco e, proprio per questo, luccicante d'un suo riverbero di notorietà riflessa. Il suddetto medico avrebbe elogiato le “vere star” da ammirare, da Eric Clapton a Nek (Nek!); e avrebbe puntato il dito contro la frase contenuta nel prossimo singolo di Vasco, “I soliti”: «Abbiamo frequentato delle pericolose abitudini ma siamo ritornati sani e salvi, e senza complicazioni». Un'affermazione certamente diseducativa, se fatta da un normale uomo di spettacolo; ma che diventa banalmente sconcertante, se ascritta al Blasco cioè a un star eversiva per ragione sociale, che ha sempre fatto del proprio corpo, delle proprie esperienze fisiche, carnali e lisergiche veri e propri esercizi di stile.  « Mi sento imbarazzato, non sono ancora diventato come la Parietti», spiega, in modo esilarante, il rocker padano a Repubblica. Perchè la realtà di quest' ossessiva riproposizione del Blasco in pensieri, opere, omissioni, tag, post via social network, macchine promozionali e macchie umane è un'altra. Più semplicistica, se si vuole.  Vasco sta alla canzone italiana come Johnny Halliday sta ai francesi, Derrick alla tv tedesca e Capitan America alla mitopoietica Usai: lo si può criticare, può non piacere (chi scrive gli ha sempre preferito Edoardo Bennato, ma siamo tra i pochi della nostra generazione...) ma rappresenta un tassello indiscutibile del patrimonio culturale d'un Paese. Se Blasco, invece di stare a casa a rompersi “le palle” con la convalescenza preferisce smanettare sul pc e raccontare al mondo i cavoli suoi con lo stupore d'un bimbo, non possiamo che rallegrarci per la sua rinnovata umanità...

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