Quando Travaglio porta in scena il vecchio Indro
recensione teatrale prima Travaglio
Nota bene: questo pezzo non è televisivo (anche se lo spettacolo di cui si parla lo sarà di certo: per ora è su Youtube): La Voce. La Voce che non è “ne quella di Sinatra”, né quella del “mio maestro di libertà Prezzolini”, come scrisse lui nell'ultimo fondo sul Giornale, gennaio 1994. É soprattutto la voce a schioppo di Indro Montanelli - di io narrante estratto dalle registrazioni di varie trasmissioni tv- l'elemento più emozionante dello spettacolo “Anestesia totale” di Marco Travaglio la cui prima ha farcito di pubblico il teatro delle Celebrazioni di Bologna, com'era prevedibile. Non che fossero tutti lettori del Fatto, o tutti comunisti. Anzi. Qualche collega comunista, piovuta da Radio Popolare pare abbia ritenuto lo show “a tratti noioso”, specie nella lettura del reportage montanelliano nella rivolta d'Ungheria del '56, cosa peraltro non vera, essendo proprio quella tra gli esprit più toccanti della serata, anche se il vicedirettore del Fatto, per tutto il tempo inchiodato sul palco, dà prova di consumato monologhista dall'ampia capacità polmonare. Il fatto è che Montanelli manca a tutti, mica solo a Travaglio. Montanelli è un po' come John Wayne, nessuno riesce ad interpretarne il ruolo per non essere schiacciato dal suo mito. Qui, questo tabù viene in parte violato. Qui l'ombra del Grande Cilindro, la sua silhouette da fenicottero nella foto che lo vede accoccolato sulla Lettera 22, si allunga su uno show “di parola” srotolato su un palco, a sua volta inghiottito dall'oscurità. Chi scrive è ex ragazzo di bottega della Voce; e il commento è squisitamente tecnico. “Anestesia totale” è un ottima prova di teatro civile che –può piacere o non piacere- è in grado di tenere ipnotizzati gli spettatori. Solo uno, per tutta la lunga durata, si è alzato dal suo posto: era Lucio Dalla “per andare alla toilette” come ci confesserà nei camerini. Lo spettacolo vibra di passione etica, anche se su alcune cose, dal taglio squisitamente politico, si può obbiettare. Travaglio, nell' indubbia capacità d'affabulatore ha naturalmente citato il Montanelli anti-premier ad uso di tesi ormai consolidate; sorvolando sul direttore degli anni del Giornale, sul cronista anti –giudici (quello di “Testa di Casson” o “Se il giudice fa lo storico, chi pensa al crimine?») e sul commentatore dalla miopia politica, strascico di una destra antica einaudiana, giolittiana, apota e da “catechismo di comportamenti” mai più esistita, purtroppo. Montanelli era questo, ma non solo; infatti le lunga invettiva dalla Voce sui gentiluomini delle destra storica e l'utopia di una borghesia illuminata un tempo ma ora spenta dalla Storia è roba toccante, specie per impolverati conservatori come lo scrivente. La scenografia dello spettacolo è minimalista alla Cechov: una panchina e un'edicola al posto dell'albero di ciliegio e un violinista, Valentino Corvino, che spezza il ritmo di un coinvolgente racconto torrenziale. Galoppano i suoi cavalli di battaglia: giustizia, casta e costi della politica, bunga bunga, Gionni Riotta e Minzolingua, deputati condannati a destra e sinistra, nessun richiamo a Di Pietro, pochi a Fini le cui magagne finiscono sotto il tappeto. Racconto torrenziale, appunto. Troppo, forse: fosse asciugato di almeno 30/ 40 minuti lo show eviterebbe le bombole d'ossigeno in sala. Così come andrebbe snellita col machete la selva di citazioni –Orwell, Longanesi, la peste di Manzoni, Saramago, Trilussa, la macchina goldoniana del mondo nuovo, Totò Peppino e la malafemmena- nei quali, talora, rischia d'incespicare il ritratto divertente, a tratti esilarante, di un'Italia alla deriva berlusconiana. Ma va bene, ci sta. Il Travaglio teatrale è abilissimo, si muove sullo schema di Annozero: lui in abito nero su fondo nero che descrive, attraverso “lezioni di giornalismo” un Paese vittima del suo lato oscuro. Alcune uscite strappano risate come il “Breve dizionario della neilongua arcoriana” (“I ribaltonisti sono tali quando vanno via, quando tornano si chiamano Responsabili”) ; o l'elenco dei titoli del Tg1 a ritmo di rap -, un'idea rubata al Trio Medusa – ; o Cogne, Avetrana e i “vassoi di tette siliconate” di Vespa per depistare l'attenzione dai processi di Silvio; o i diari cazzari di Mussolini e Calderoni col lanciafiamme, la “repubblica di falò”. Spettacolo di ampio respiro, che si lascia guardare. Pure se rispetto al precedente Promemoria forse stridono alcune scelte. L'incipit con l'idea di un futuro alternativo in cui Berlusconi è scomparso che ci ricorda tanto la trama di un libello satirico clandestino “Vudu per il presidente” venduto via web e dedicato a Travaglio -ma pure a Vittorio Feltri- . É un incipit monco, che Marco lascia per strada attingendo poi a piene mani ai suoi libri, “La scomparsa dei fatti” e “Montanelli e il Cavaliere”, tra i suoi migliori. L'altro neo è la pur fascinosa Isabella Ferrari. L'attrice, a leggere Montanelli, non è disastrosa come Lucia Annunziata che si produsse in egual prodezza anni fa; ma è legnosa, non “comunica”. Forse una Lella Costa era meglio. Ciononostante, Travaglio si dimostra seppur un po' di parte (la sua) un cronista da rispettare; e lo show ci rende l'idea di un giornalismo pulito e di un'Italia smarrita ma in grado di risollevarsi nella riscoperta dei suoi indimenticati modelli. Montanelli su tutti. Nel foyer due ventenni (consigliati da Travaglio stesso , “è importante che si legga Montanelli”) compravano due libri del loro nuovo idolo. Sulla copertina svettava un titolo, “Il generale Della Rovere”, nella foto l'autore aveva novant'anni, gli occhi cerulei e un girocollo beige che nessuno di noi ha mai dimenticato.