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Dal socialista Sanders a Pocahontas e il sindaco gay, i candidati dem ai Raggi X

Glauco Maggi
Glauco Maggi

Giornalista a NYC per Libero, autore di Figli&Soldi (2008), Obama Dimezzato (2011), Guadagnare con la crisi (2013), Trump Uno di Noi (2016). Politica ed economia. Autori preferiti: Hayek, M.Friedman, T.Sowell

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La campagna per la nomination del candidato del GOP, nel 2016, stimola interessanti raffronti con quella attualmente in corso tra i Democratici. I Repubblicani in lizza erano quasi una ventina, appena inferiori, come numero, ai venti e passa dei potenziali sfidanti DEM di Trump. La qualita' dei personaggi e' invece molto diversa. Nel lotto dei repubblicani di allora facevano bella mostra una serie di governatori o ex governatori di successo, che godevano di alta stima nel GOP e anche tra gli indipendenti: da John Kasich (Ohio) a Jeb Bush (Florida), da Chris Christie (New Jersey) a Scott Walker (Wisconsin), da Bobby Jindal (Louisiana) a Rick Perry (Texas). Tra i senatori, Ted Cruz e Marco Rubio erano in pole position, anche perche' da ispanici rappresentavano una minoranza etnica, fattore ritenuto vincente al pari del colore dell'afroamericano Ben Carson, medico di fama, e del genere della donna Carly Fiorina, manager della Silicon Valley. Poi, idea pazza, e' spuntato e si e' imposto, contro tutti, Donald Trump, miliardario fanfarone di New York e maestro della visibilita' sui media. Sull'altro fronte, c'era Hillary, la candidata DEM designata d'ufficio dai Grandi Elettori del partito, erede di Obama di cui era stata segretaria di Stato, e per di piu' con il brand della dinastia Clinton, ex first lady con 8 anni alla Casa Bianca. La corsa lanciata da Bernie Sanders, unico sfidante di Hillary nel 2016, fu presa sul serio soltanto dopo la vittoria di Trump nel novembre 2016, quando tra i DEM esplosero la rabbia (di avere perso) e il rimpianto (di non aver nominato il senatore socialista). Fino alla batosta, il partito si era cullato nell'illusione di un trionfo scontato, affidato allo slogan della “prima presidente donna” e al ricordo degli anni 90 del boom del marito Bill Clinton, il solo presidente Democratico, da J.F.Kennedy in poi, a capire davvero di economia. Lo choc di Trump non e' ancora stato assorbito dal partito DEM, come mostra lo psicodramma del Russiagate. La speranza che il Rapporto Mueller desse la prova della collusione di Trump con Putin e' ormai defunta, ma i deputati e i senatori Democratici restano schiavi della idea dell'impeachment. I sondaggi dicono che la gente e' stufa: in agosto chiedevano l'avvio della procedura il 49% dei votanti; ora, letto il Rapporto Mueller, sono il 37%. Tra gli indipendenti, oggi il 59% si oppone e solo il 36% e' d'accordo con l'impeachment. Insistere, insomma, farebbe bene solo al presidente, ma quasi tutti i candidati DEM si sono espressi a favore di Ocasio Cortez e degli altri 3 o 4 deputati socialisti che sono diventati l'avanguardia del partito e vogliono l'impeachment. Non e' stata pero' solo la disfatta di Hillary di tre anni fa a produrre una ‘squadra' di candidati presidenti che piu' a sinistra non si puo', e scarsamente significativa per personalita' e rango. Certo, Sanders e' il nome di punta della rivoluzione anti-moderata, ma la trasformazione l'aveva avviata Obama, il creatore del concetto di “coalizione delle identita'” come base elettorale. La Clinton non fu capace di coagulare neri e ispanici come aveva fatto Barack, e inoltre perse gli operai bianchi. Adesso la situazione dei DEM e' deprimente: con Sanders, il solo nome conosciuto nel paese e' quello dell'ex vicepresidente Joe Biden, che pero' fu ritenuto nel 2016 impresentabile dal suo stesso capo, Obama. I due ex governatori scesi in campo, John Hickenlooper e Jay Inslee non se li fila proprio nessuno al di fuori del Colorado e dello Stato di Washington. Tra i senatori, Elizabeth Warren, pellerossa mancata, e' la piu' famosa, purtroppo per lei, perche' Trump la chiama Pocahontas. Cory Booker, Amy Klobuchar, Kristen Gillibrand e Kamala Harris racimolano qualche titoletto solo sui siti del Palazzo della politica, senza generare alcuna news che si imponga, ne' buona ne' fake. Il nome che ha suscitato il maggiore interesse finora e' il sindaco gay di una cittadina dell'Indiana, Pete Buttigieg. Lui aveva cercato di minimizzare il fatto di essere omosessuale dicendo che, ovviamente, pensa al bene di tutti. Ma l'associazione dei LGBT (lesbiche, gay, bisessuali, transessuali) gli ha dato gia' l'endorsement. Da una parte si e' cosi' conquistato il marchio di “primo presidente omo”, slogan gia' fallito con “la prima donna”. Ma, dall'altra parte, questa visibilita' sessualmente ultra-caratterizzata gli tarpera' le ali: gli afro-americani sono l'anima della “coalizione delle identita'” , ma sono anche socialmente conservatori e molto religiosi negli Stati del sud e dell'est (dalle Caroline all'Alabama). Il 95% dei neri vota Democratico, ma un candidato DEM gay e' inaccettabile per tanti di loro. E per il 2020, peraltro, Trump sta crescendo anche nei sondaggi tra i neri: non perche' e' macho, ma perche' ha abbassato al livello record del 6% il tasso di disoccupazione tra gli afroamericani.

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