
"Gen_", un film su Maurizio Bini, il medico del Niguarda che fa nascere e rinascere

Nel tempo libero il dottor Maurizio Bini passeggia tra gli alberi alla ricerca di funghi che maneggia con la cura riservata ai suoi pazienti. Li raccoglie, spazzola via delicatamente la terra che li aveva nascosti, li annusa, li assaggia, poi li porta a casa e li conserva in vista di un pranzo tra amici. Spesso il lunedì mattina dalle sue montagne va direttamente al lavoro e il suo raccolto diventa argomento di conversazione con i pazienti nell’ambulatorio dell'ospedale Niguarda di Milano dove ogni giorno accompagna coppie infertili nel loro desiderio di diventare genitori e contemporaneamente sostiene il percorso di chi intraprende terapie di affermazione di genere.
Il dottor Bini e il suo reparto, eccellenza sanitaria nazionale e grazie a lui anche internazionale, sono i protagonisti del film Gen_ (regia di Gianluca Matarrese, scritto da Donatella Della Ratta) che dopo essere acclamato dalla critica e dal pubblico al Moma di New York e al Sundance World Cinema Documentary 2025, arriva anche in Italia. Oggi, venerdì 14 marzo, sarà a Roma al Cinema Troisi; sabato al Cinema Beltrade di Milano; domenica al Cinema Massimo di Torino. Il 27 marzo sarà in tutte le sale.
Il film racconta storie che ciascuna meriterebbe una pellicola a parte, vite di persone che vogliono “rinascere” e si affidano al dottor Bini, medico ironico e sensibile, comprensivo e rispettato, che in un contesto che solleva dilemmi etici, naviga tra i confini del possibile e le pressioni di un mercato sempre più orientato alla mercificazione dei corpi, con una missione coraggiosa: accompagnare le persone nella realizzazione più profonda dei loro sogni. Perfino invitando la prima viola del teatro La Scala a suonare per gli embrioni e per le mamme che li hanno in grembo grazie a lui.
Nel cortile del cinema Beltrade, nel cuore di Nolo, dove è stato proiettato in prima assoluta nazionale il film “Gen_” il dottor Bini risponde volentieri alle domande sul suo lavoro che solleva parecchi dubbi sulla scienza, l'etica e i limiti oltre i quali non si dovrebbe andare.
“Ci vuole una posizione equilibrata di valutazione dei casi singoli per decidere qual è la cosa migliore da fare per la singola persona”, ci tiene a puntualizzare il dottor Bini seduto su un tavolino dell'oratorio della parrocchia di Santa Maria dove ha offerto un buonissimo buffet a base di funghi. “Questo lavoro è una medicina di confine dove non si sparano proiettili ma cazzate, tante. E questo confine va presidiato, non bisogna lasciar passare tutto. Però non va presidiato con i muri, non va presidiato con i guantoni, va presidiato con i guanti. Questo è un film che sta a metà strada fra quelli che dicono tutti i desideri devono essere realizzati e che si deve trovare qualcuno per realizzarli, e quelli che dicono 'no, nessun desiderio può passare, perché sono io che decido quali sono i desideri che possono essere esauditi'”.
Quali sono i limiti oltre il quale non si può andare?
“La cosa più importante del film è che si capisce che noi del Niguarda sappiamo cosa stiamo facendo senza dimenticare che cosa tocchiamo. Il grosso problema della scienza attuale è che è nata libera, senza limiti, il plus ultra di Bacone. Ma valeva per l'astronomia. Quando siamo arrivati alla biologia umana ci siamo resi conto che non può essere un liberi tutti, non deve esserlo. Insomma stiamo toccando il nucleo ardente dell'esistenza. Uno deve tenere in mente che cosa sta toccando”.
Ci sono anche dei bambini e bambine di otto anni tra i suoi pazienti? Si è abbassata l'età della consapevolezza?
“È cambiato l'atteggiamento dei genitori. Prima erano totalmente oppositivi: ricordo, 35 anni fa, un ragazzino che andò a casa dicendo ‘voglio diventare una donna’ e il padre gli spezzò le braccia. Oggi, se a otto anni un ragazzino va a casa e dice che vuole diventare una donna i genitori gli ‘dicono basta che tu sia felice’ e lo portano a me, perché è vero che vogliono che il figlio sia felice, ma capiscono di non essere capaci a gestire la situazione. Quindi, mentre prima io dovevo spingere i genitori dei minori a rispondere ‘vediamo se la cosa è inevitabile’ anche perché è inutile che si mettono di traverso perché non riusciranno a fargli cambiare idea; adesso devo dire a mamma e papà che per prendere questa grande decisione ci vuole un cervello più grosso di otto anni. Diamo l’idea alla ragazzina o la ragazzina che accogliamo il suo disagio così che non si senta rifiutato nei suoi bisogni, ma senza fare niente. Lo osserviamo nel vedere la maturazione della decisione, lo guardiamo senza dire di no, ma senza neanche dire è la cosa giusta. Io dico al ragazzino che ho di fronte che ‘se il tuo cervello, nella maturazione della tua vita, tornerà a confermare che è un sì, procederemo. Adesso fermiamoci un secondo, ci rivediamo fra un po’ di tempo e vediamo se è ancora un sì e poi vediamo insieme di cosa fare’”.
Quanti di queste bambine e bambini ci ripensano?
“Diciamo che il settanta per cento delle persone cambia idea prima di 13 anni, dopo è molto più raro. Qui ovviamente il problema è sempre quello: se uno è sicuro di questa transizione è ovvio che è meglio non far venire i caratteri sessuali secondari. Il problema è che quant'è il livello di sicurezza dell'operatore di fare la cosa giusta? Io sono fortemente insicuro, quindi è rarissimo che intervenga sui minori. Nei pochi casi in cui sono intervenuto era su un minore con già multipli tentati suicidi”.
Come si convince che è la cosa giusta da fare?
"Uno degli orgogli più grossi è che in 35 anni di lavoro è che non una singola persona ha cambiato idea o è regredita e non una singola persona ha fatto atti autolesivi dopo l’aiuto. Perché la causa di morte più frequente è il suicidio prima dell’aiuto. Però il nostro mestiere è quello di mettere, come per tutti i medici, un equilibrio, tra quello che uno ha con quello che uno vuole. Qualche volta si ottiene aumentando quello che uno ha. Qualche volta diminuendo quello che uno vuole. Se posso non fare un percorso con la chirurgia, col sangue, e riesco a trovare un giusto equilibrio per il paziente senza giungere a questo estremo: questo è il mio scopo. Lo dico sempre durante il primo incontro: io metto la firma su un documento che autorizza la mutilazione fisica di una persona giovane. A me chi me lo fa fare di metterla? Tocca a lei, a lui, convincermi che se non lo faccio sono un sadico tremendo che vuole il suo male. Firmo quando mi convince che stare fra i 18 anni e i 90 anni in un corpo che non è il suo è una tortura estrema. Io non metto quella firma con superficialità”.
Una volta che il paziente lo ha convinto, come interviene?
“Tutta l'energia va messa nel discutere con il paziente su qual è la cosa giusta da fare. Questo è l’elemento di base. Poi fare o non fare una terapia, un intervento, una donazione è una conseguenza. È un concetto un po’ cattolico: il peccato non è nell’atto, ma quando dai l’assenso all'atto. Mi spiego meglio: vuoi andare dall’amante, scendi e prendi l’auto, ma se l’auto non parte, il peccato l’hai già commesso perché il resto è una conseguenza. E lo stesso vale per me. La parte tecnica successiva, quella su cosa fare, cosa non fare, operare o non operare; prescrivere gli ormoni? Quali ormoni? Questo è un atto successivo e molto semplice. Il vero problema è quando tu hai davanti una persona che deve prendere una decisione così complicata. Anche lui va in confusione. Non è non sa qual è la cosa giusta”.
Il docufilm di Matarrese e Della Ratta nel quale lei è protagonista ha avuto un incredibile successo negli Stati Uniti.
“Vero. Lì una medicina così non l’hanno mai vista. La medicina contrattualistica americana è: tu mi dici cosa vuoi? Io ti dico quanto costa. Quando c'è tanto denaro in mezzo è molto più difficile non fare cose superficiali. Qui non ce denaro che transita fra me e i pazienti. E questo è un grosso vantaggio per me che cerco di fare il meglio per loro: certe volte, il meglio per loro, è convincerli che è meglio non fare niente. Quindi questa è la differenza. Dal successo avuto negli Stati Uniti arriva un messaggio per noi italiani: questa medicina non va persa. Ecco, bisogna stare attenti, perché forse è un modo di fare medicina a cui siamo abituati e non ci accorgiamo del suo valore. Quelli che non ce l'hanno se ne accorgono”.
Lei ha sessanta anni e dal 1990 fa questo lavoro. Come ha iniziato?
“Questo lavoro che è capitato per caso proprio 35 anni fa, quando andò in pensione il medico che si occupava di transessualismo, un pioniere del settore. L'ospedale chiuse il servizio La comunità trans giustamente fece una dura opposizione perché era l’unico servizio in Lombardia. Io ero un giovane ginecologo inesperto, ingenuo, mi occupavo da un paio di mesi di contraccezione, menopausa, fecondazione quindi gli ormoni, e la direzione mi chiese di sostituirlo momentaneamente: un po’ come Atlante che dice ad Ercole mi tiene un secondo il mondo e lui va a donne. Sono 35 anni che cerco di trovare qualcuno che si riprende il mondo. Adesso c'è una giovane dottoressa, Chiara, che finalmente sembra avere le perversioni giuste per fare per fare questo tipo di lavoro”.
Non sembra perverso dottor Bini.
“Faccio un mestiere che fino a pochi anni fa era attribuito alle divinità, cioè fare esseri umani, creare embrioni che fanno esseri umani; e da adulti facendogli cominciare una nuova vita. Quindi è un lavoro difficile e sono brividi. È venuta una donna sterile, ho fatto la fecondazione artificiale ed è nata questa bambina. Io ero in sala parto e ho attribuito il sesso alla nascita di carattere femminile. Poi la persona ha transitato: l’ha aiutata a diventare maschio e si è sposato con una donna. Sempre io ho fatto la fecondazione artificiale su sua moglie. Questo lavoro è un lavoraccio o un lavorone, faccia lei. Però in tutti i singoli passaggi di questo caso c'era un'assoluta necessità di farlo. Ci sarebbe un sadismo estremo nel non aiutare a modificare quella situazione che devono essere modificate. Io il medico l'ho fatto per questo motivo e sono così vecchio da potermi assumere anche posizioni un po’ così forti come quelle che il film può suscitato. Però me ne assumo volentieri la colpa”.
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