Cerca
Logo
Cerca
+

Maysoon Majidi, l'artista curda chiusa in un carcere italiano da 9 mesi in attesa del processo

Nicoletta Orlandi Posti
Nicoletta Orlandi Posti

Nicoletta Orlandi Posti è nata e cresciuta alla Garbatella, popolare quartiere di Roma, ma vive a Milano. Giornalista professionista e storica dell'arte, cura su LiberoTv la rubrica "ART'è". Nel 2011 ha scritto "Il sacco di Roma. Tutta la verità sulla giunta Alemanno" (editori Riuniti); nel 2013 con i tipi dello stesso editore è uscito "Il sangue politico": la prefazione è di Erri De Luca. Il suo romanzo "A come amore", pubblicato a puntate su Facebook, ha dato il via nel 2008 all'era dell'e-feuilleton. A febbraio del 2015 è uscito il suo primo ebook "Expo2051". Nel 2016 Castelvecchi ha pubblicato il suo libro "Le bombe di Roma"; nel 2019 è uscita la seconda edizione. Sta lavorando a un romanzo erotico. Il titolo del blog è un omaggio al saggio del prof Vincenzo Trione.

Vai al blog
  • a
  • a
  • a

Maysoon Majidi è un'artista curda in prigione da quasi nove mesi. Non a Teheran, dove le Guardie della Rivoluzione la cercano per ucciderla, essendo lei anche un'attivista per i diritti delle donne. Maysoon è rinchiusa in un carcere italiano con l'accusa di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare, sulla base delle dichiarazioni (non registrate) di alcune persone che avevano fatto il viaggio con lei e che avevano anche tentato di stuprarla. La Procura la ritiene una scafista, nonostante le testimonianze contro di lei siano state ritrattate, nonostante vi siano stati errori di traduzione e nonostante abbia fornito prove che dimostrano il pagamento del viaggio verso l'Italia. (quando si è mai visto uno scafista che paga?).

 

 

 

 

Maysoon è ancora in carcere, in Calabria, dove era sbarcata nell’ottobre 2023 e dove era stata immediatamente ammanettata senza comprendere pienamente cosa stesse accadendo. Solo attraverso i gesti delle sue compagne di cella ha capito l'orrendo reato di cui era accusata. Separata da allora dal figlio di otto anni, Maysoon ha iniziato uno sciopero della fame a oltranza per richiamare l’attenzione pubblica su una vicenda che per lei è diventata un incubo e che ha tutti gli ingredienti dell'ennesimo caso di malagiustizia tricolore.  La sua storia è quella di una donna di 28 anni che ha lasciato tutto per sfuggire alla violenza del regime iraniano e che oggi si ritrova incarcerata nello stesso Paese che credeva l’avrebbe salvata. Maysoon  ha vissuto i pericoli e le minacce di chi osa sfidare gli ayatollah, considerati dall'Occidente criminali e terroristi, ma invece di essere aiutata, continua a essere privata della libertà. Il suo attivismo contro il regime è iniziato nel 2019, quando, come giornalista indipendente, denunciava la violenza contro chi si opponeva all’oppressione del governo iraniano. Durante le proteste per la morte di Mahsa Amini, Maysoon ha partecipato attivamente al movimento "Donna, Vita, Libertà", ma la crescente repressione l’ha costretta a lasciare il suo Paese per evitare lo stesso destino di altre attiviste arrestate o condannate a morte.

La sua fuga non è stata semplice. Dopo un breve soggiorno nel Kurdistan iracheno, ha deciso di imbarcarsi verso l’Europa insieme a suo fratello, sperando di trovare finalmente un luogo sicuro. Invece, dopo un'odissea durata tre anni tra campi profughi, fughe, rapine subite e riscatti pagati dalla famiglia, si è ritrovata addosso l'accusa pesante di essere «l’assistente del capitano» dell’imbarcazione che, alla fine del 2023, ha raggiunto Crotone con a bordo 77 persone. Le prove appaiono scarse e contraddittorie: due testimoni l’avevano identificata, ma ora sono irreperibili (almeno per il tribunale) e le loro dichiarazioni non sono state videoregistrate, il che impedisce alla difesa di effettuare una perizia sulla traduzione delle loro affermazioni. Non solo: a maggio, la trasmissione televisiva Le Iene è riuscita a rintracciare i due in Germania e, intervistati, hanno dichiarato di non aver mai indicato Majidi come scafista, affermando che l'imbarcazione era guidata «da un uomo turco». Gli inquirenti hanno anche in mano un video trovato sul cellulare della donna, in cui Majidi rassicura il padre sulle sue condizioni e ringrazia il capitano della nave: un segnale che, secondo le ipotesi, sarebbe stato richiesto dai veri scafisti per prendere l’ultima tranche del pagamento del viaggio, inviato dalla famiglia. Majidi avrebbe speso circa 50.000 dollari per raggiungere l’Italia, includendo le spese per il viaggio dall'Iran alla Turchia, la traversata in mare e «circa 16.000 dollari» estorti tramite una truffa. Tutti elementi che dimostrano come Majidi fosse una passeggera e non parte dell’organizzazione del viaggio. Tuttavia, all’ultima udienza, lo scorso 24 giugno, il collegio presieduto dal giudice Mario D’Ambrosio ha accolto le tesi della pm Rossella Multari, negando a Majidi la concessione degli arresti domiciliari.

Majidi non è l'unica attivista iraniana chiusa nelle nostre carceri. Anche Marian Jamali, 29 anni, è fuggita dall’Iran per sottrarsi alla repressione del regime, cercando rifugio in Europa. Quando è sbarcata a Roccella Ionica nell’ottobre del 2023, è stata immediatamente arrestata con la stessa accusa: essere una scafista. Come Majidi, anche Jamali si è trovata di fronte a un’accusa basata sulle dichiarazioni degli stessi uomini che lei aveva denunciato per molestie sessuali durante il viaggio. Nonostante la mancanza di prove concrete e le evidenti incongruenze nelle testimonianze, Marian è stata incarcerata.

Il prossimo 18 settembre, Maysoon affronterà una nuova udienza. 

Qui la sua lettera per raccontarsi: 

Mi chiamo Maysoon Majidi, sono nata il 29 luglio del 1996. Questa è la mia voce! Sono laureata in teatro e ho un diploma magistrale, sono attivista politica e membra dell’organizzazione dei diritti umani «Hana», partecipo al coordinamento dei Curdi in diaspora, sono attivista dei diritti delle donne e delle nazioni sottomesse. Quanto ai diritti dei rifugiati, ho sempre partecipato alle varie attività come organizzare le manifestazioni dell’Onu in Erbil (Iraq) dopo la morte di Behzad Mahmoudi, rifugiato politico. Ho svolto tante altre attività. Ho partecipato alle lotte del popolo curdo per sette anni.

NEL 2019 sono dovuta scappare dell’Iran con mio fratello e in Kurdistan irakeno ho lavorato in televisione. Negli ultimi due anni ho lavorato come reporter e giornalista indipendente. Nel corso della rivoluzione per «Jina-Mahsa Amini» ho organizzato la prima performance davanti alla sede delle Nazioni unite in Erbil e ho costruito il canale «Ack news» per pubblicare notizie in tempo reale. Sia io che mio fratello abbiamo ricevuto messaggi di minacce da parte del regime iraniano, così abbiamo dovuto lasciare l’Iraq, perché l’Onu ha evitato ogni appoggio, aiuto, protezione. Nell’agosto 2023, insieme ad altri attivisti, abbiamo pagato cinquemila euro per entrare in Turchia come rifugiati. Abbiamo dovuto camminare in mezzo alle montagne. In Turchia siamo rimasti a casa di una signora anziana per due giorni, poi siamo andati a Van e dopo cinque giorni abbiamo ricevuto i passaporti falsi. Da lì siamo andati a Istanbul con vari mezzi e macchine (essendo trascorso un anno, non ricordo tutti i dettagli). A Istanbul eravamo in 15 e siamo stati truffati (…). Ci hanno derubato dei soldi che avevamo pagato per venire in Italia, ci minacciavano, ci facevano violenze e dispetti continuamente.

SIAMO STATI abbandonati in Turchia per cinque mesi (da agosto a dicembre). In questo periodo chiedevamo l’aiuto economico dalla famiglia e dai parenti (…). Io e mio fratello abbiamo dovuto aspettare fino a dicembre per avere i soldi per venire in Italia (quasi 50mila euro). La mia famiglia ha dovuto vendere la macchina e la casa per recuperare questi soldi. Il 25 dicembre siamo andati all’hotel Aksara di Istanbul per partire verso l’Italia il giorno successivo. C’erano tanti altri passeggeri. (…) Finalmente il 26 dicembre, alle 18, insieme ad altre 30 o 40 persone, siamo stati trasferiti al porto di Izmir. Il 27 dicembre, insieme ai passeggeri di un altro camion, siamo arrivati in spiaggia, camminando in mezzo alle montagne per ore. Alle 12, dopo essere stati controllati e aver lasciato a loro i nostri cellulari, portando con noi uno zaino solo, divisi in piccoli gruppi, siamo stati trasferiti su una barca con i vaporetti. Ognuno di noi aveva solo uno zaino nero con le cose strettamente necessarie. La barca aveva tre camere piccole e un salone. Le donne e i bambini erano in una stanza e una cabina era per la famiglia (…). Gli uomini, la maggior parte dei quali erano afgani, stavano nel salone. C’erano tre bagni, uno per noi che si è rotto il primo giorno ed era fuori uso; (…) Nell’urgenza di andare in bagno dovevamo usare i sacchetti di plastica e poi buttarli fuori. A causa della situazione terribile, si vomitava spesso. Il motore della barca si rompeva continuamente (…). Si è rotta anche la pompa e l’acqua entrava in barca; i ragazzi dovevano svuotarla con i cestini che scaricavano fuori.

IL MIO CORPO diventava sempre più debole per ilo mal di mare. Mi girava la testa. Mi sono accorta che mi sono venute le mestruazioni. Sono andata in bagno per controllare. Era vero, ma non riuscivo a trovare lo zaino per prendere l’assorbente. Sono tornata su per cercarlo e ho visto che si era seduto un uomo al posto mio. Ho provato di tutto e persino litigato, ma non si è spostato. Avevo la nausea e non riuscivo a respirare. Una donna, che è stata sopra tutto il tempo, maltrattava tutti, ha cominciato a sgridarmi. Io ho reagito a parole. Piano piano tutti hanno cominciato a urlare. Un uomo ha cercato di calmarmi e mi ha chiesto di sedermi su un pezzo di legno in fondo alla barca e ha detto che anche gli altri passeggeri potevano salire al piano superiore per respirare. (…) Il 30 dicembre sono rimasta nell’ultima stanza vicino alle donne e ai bambini. L’odore del bagno era così forte che si sentiva dal piano di sopra. Il 31 dicembre ci hanno detto che eravamo nel mare libero e non c’era più il rischio di essere visti dai poliziotti, quindi si poteva andare su senza problemi. (…)

TUTTI SI LASCIAVANO il vero nome e i contatti di Instagram. Era finito il viaggio e si vedeva la costa italiana. Nella mattinata nebbiosa di dicembre hanno calato la barchetta gonfiabile in acqua. Tutti felici hanno cominciato a filmare e mandare i messaggi per far sapere che erano in salvo. Pure io, seduta sul legno, ho mandato un messaggio e i selfie con mio fratello alla famiglia. A causa del freddo, la lingua tremava e ho dovuto ripetere il mio messaggio vocale più volte. (…) Cinque minuti dopo aver mandato il video, hanno detto che cinque persone dovevano scendere come siamo saliti all’inizio! Siamo stati nominati io e mio fratello (…).

PENSAVO CHE tutto fosse andato bene, ho cominciato a fare le foto ai funghi cresciuti per terra, agli alberi, alla natura e poi ci siamo fatti alcuni selfie. A causa del mio sanguinamento da mestruazione, un uomo curdo mi portava lo zaino. Non c’eravamo ancora allontanati, quando ho sentito un rumore da dietro! Ho visto un’ombra dietro agli alberi! Appena ho chiamato gli altri, sono usciti i poliziotti, mi sono spaventata vedendoli, perché pensavo che ci picchiassero (come i poliziotti bulgari) e per quello ho subito detto che eravamo rifugiati: «Aiutateci!» Sono diventati tanti. Prima ci hanno chiesto di mostrare cosa portassimo nei nostri zaini e poi ci hanno perquisito. Uno di loro mi ha aperto l’hotspot dal suo cellulare per accedere a internet e così sono riuscita a cercare il mio nome online e fargli vedere alcune foto delle mie attività. Poi sono riuscita a comunicare con loro tramite traduttore digitale. Ho spiegato che siamo attivisti politici, e che la persina con me è mio fratello: «Siamo iraniani e non vorremmo restare in Italia. Siamo diretti in Germania». Lui mi ha scritto col traduttore digitale che dovevo stare calma. E che loro ci avrebbero trasferito in un campo solo per farci riposare e aiutarci. Poi ci avrebbero lasciati liberi di andar via. Li ho ringraziati.

Dopo ci hanno trasferiti in un parcheggio scoperto. Ci siamo aggregati agli altri passeggeri che erano arrivati prima di noi. Abbiamo fatto la coda per farci fotografare e per la registrazione dei nostri dati sensibili. Hanno distribuito acqua e biscotti. Mi sono seduta in un angolo con mio fratello. Il poliziotto e il mediatore mi hanno chiesto chi guidasse la barca. Ho risposto: «Non lo so». (…) Il mediatore ha ripetuto la domanda: «Chi comandava sulla barca?» (…) Ho risposto: «Non so». Sono andati via. Poco dopo, ci hanno chiesto di salire su un bus bianco. (…) Avevo i piedi gonfi e le scarpe sporche e bagnate. Le ho tolte e lavate. Poi sono andata fuori a sedermi. (…) A quel punto sono venuti ad arrestarmi. Non riesco ancora a capire il perché.

***
La traduzione è a cura di Unione Donne Italiane e Kurde, Marjam Mohammadi, Snour Marziyeh Nishat

 

 

Dai blog