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L'anguria palestinese: l'arte è un potente mezzo per aggirare la politica

Nicoletta Orlandi Posti
Nicoletta Orlandi Posti

Nicoletta Orlandi Posti è nata e cresciuta alla Garbatella, popolare quartiere di Roma, ma vive a Milano. Giornalista professionista e storica dell'arte, cura su LiberoTv la rubrica "ART'è". Nel 2011 ha scritto "Il sacco di Roma. Tutta la verità sulla giunta Alemanno" (editori Riuniti); nel 2013 con i tipi dello stesso editore è uscito "Il sangue politico": la prefazione è di Erri De Luca. Il suo romanzo "A come amore", pubblicato a puntate su Facebook, ha dato il via nel 2008 all'era dell'e-feuilleton. A febbraio del 2015 è uscito il suo primo ebook "Expo2051". Nel 2016 Castelvecchi ha pubblicato il suo libro "Le bombe di Roma"; nel 2019 è uscita la seconda edizione. Sta lavorando a un romanzo erotico. Il titolo del blog è un omaggio al saggio del prof Vincenzo Trione.

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Negli intricati intrecci della storia e dell'arte, emergono simboli apparentemente insoliti che diventano emblemi potenti di resistenza e resilienza. Uno di questi è il cocomero, il frutto dal colore vivace e dal sapore dolce, che ha assunto un significato profondo nel contesto della resistenza palestinese.  Il primo a rendersene conto è stato Jackson Connor che in un articolo del 2015 su Vice spiegava come, dopo la Guerra dei Sei Giorni del 1967, qualsiasi manifestazione politica contro Israele fosse stata proibita ed era stata bandita anche l’esposizione della bandiera palestinese o di altri simboli che ne ricalcassero i colori. Così, per aggirare il divieto, in quel periodo molti attivisti cominciarono a utilizzare le fette di anguria come forma di protesta. In realtà il cocomero era simbolo di resistenza del popolo palestinese fin dalla Nakba del 1948, l'esodo palestinese durante la creazione dello Stato di Israele. In quel periodo di profonda sofferenza e sfide, gli abitanti della Palestina trovarono nell'anguria una fonte di nutrimento e idratazione vitale nei campi profughi. L'anguria, con la sua buccia verde spessa e il suo succo rinfrescante, divenne un simbolo di resistenza e perseveranza. La sua presenza nei momenti difficili incarnò la forza della comunità palestinese nel continuare a prosperare nonostante le avversità.

 

 

 

Un'altra storia sull'anguria riguarda gli artisti Sliman Mansour, Nabil Anani e Issam Badr. Era il 1980 e stavano esponendo le loro opere nella mostra alla Gallery 79 di Ramallah quando venne chiusa dall’esercito israeliano poiché le opere d’arte erano considerate politiche e comprendevano la bandiera palestinese e i suoi colori. Di fronte all’ufficiale, Badr chiese: “E se volessi solo dipingere un’anguria?”, Al che l’ufficiale rispose: “Il disegno sarebbe confiscato”. Mansour, ora settantenne e residente a Birzeit, ricorda l’incidente nella Gallery 79 era stata aperta solo tre ore prima che i soldati sgombrassero lo spazio e lo chiudessero. Due settimane dopo, gli ufficiali israeliani avevano convocato i tre artisti, avvertendoli di smettere di produrre dipinti politici e dipingere invece fiori. 

 


Di certo c'è che l'anguria è diventata uno strumento di condivisione culturale e di narrativa resistente. Attraverso la sua raffigurazione nelle opere d'arte viene sottolineato il legame indissolubile tra il popolo palestinese e la propria terra, nonostante le difficoltà storiche. Il simbolismo dell'anguria è anche un richiamo all'importanza di preservare le tradizioni alimentari e culturali, sfidando così qualsiasi tentativo di cancellazione o assimilazione. E lo dimostrano gli artisti che ancora adesso continuano a dipingere angurie nelle proprie opere come Khaled Hourani, che aveva ascoltato la storia di Mansour e aveva dipinto una fetta di anguria per il progetto “Atlante della Palestina” nel 2007. Il suo lavoro ha fatto il giro del mondo, tra cui Scozia, Francia, Giordania, Libano ed Egitto. Hourani ha anche tenuto laboratori d’arte nelle scuole di Ramallah.  Sarah Hatahet, un’illustratrice giordana che vive ad Abu Dhabi, ha creato la sua opera d’arte con l’anguria dopo essersi imbattuta in Hourani sui social media. Altri, come Sami Boukhari che vive a Jaffa, Aya Mobaydeen ad Amman, Beesan Arafat in Inghilterra, hanno attinto alla storia dell’anguria e hanno condiviso le loro opere sui social diventando in poco tempo virali con migliaia e migliaia di ricondivisioni specialmente dai giovanissimi. 

 

 


Secondo la storica dell’arte Salwa Mikdadi, curatrice della prima mostra sulla Palestina presentata alla Biennale di Venezia nel 2009, prendere di mira gli artisti e gli spazi culturali è una tattica volta a cancellare l’identità del popolo palestinese. “L’obiettivo è deumanizzare il popolo palestinese, lasciandolo senza cultura e senza passato (…). L’arte è da sempre considerata un mezzo pericoloso, perché riesce a mobilitare l’opinione pubblica molto più della politica”.

 

 

 

 

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