Nan Goldin è l'artista più influente dell'anno: la militanza paga
"Nan un mese dopo essere stata picchiata", fissa il pubblico di tutto il mondo da quarant'anni con lo sguardo perso nel vuoto e i segni della violenza ben in vista. È l'autoritratto di Nan Goldin, fotografa e attivista statunitense, che è stata incoronata da ArtReview l'artista più influente dell'anno. Il suo nome svetta nella tradizionale classifica “Power 100” stilata da 22 anni dall'autorevole magazine londinese che in questo 2023 premia l’attivismo. Se nel 2021 a conquistare la vetta erano stati gli Nft, quest’anno ai primi 10 posti ci sono solo artisti in carne e ossa. Ma la regina è lei, Nan Goldin, che nel 1984, viene picchiata dal suo fidanzato, tanto da rischiare di perdere un occhio. Un mese dopo scatta un autoritratto che diventerà simbolo per tutte le donne vittime di violenza: ha il volto ancora tumefatto, guarda dritto nell’obiettivo, e il titolo è il più diretto possibile, Nan un mese dopo essere stata picchiata. "La fotografia mi ha salvato spesso la vita: ogni volta che ho passato un periodo traumatico sono sopravvissuta scattando. Il mio lavoro si basa sulla memoria. Per me è fondamentale avere un ricordo della gente che ho conosciuto, specialmente di chi mi è stato vicino, per consentirgli di vivere per sempre", ha rivelato l'artista.
Dalle gallerie di New York, in cui ai tempi d'oro era difficilissimo esporre visti i temi e gli uomini alla guida, a oggi, Nan Goldin è firma della verità. Vale la pena ricordare, tra le altre cose a testimonianza di ciò, che è tra le firmatarie della lettera a sostegno della causa della Palestina pubblicata da Artforum e che è costata il posto al direttore, accusato di non aver condannato apertamente le atrocità di Hamas del 7 ottobre. Le polemiche seguite alla pubblicazione della lettera hanno indotto molti dei firmatari originari a fare marcia indietro, ma non certo lei. "Le persone vengono messe nella lista nera, perdono il lavoro", ha dichiarato al New York Times la Goldin aggiungendo: "Non ho mai vissuto un periodo più agghiacciante".
E dire che di situazioni difficili lei nei ha vissute, e anche parecchie. Aveva solo undici anni quando la sua adorata sorella Barbara si uccise sdraiandosi sui binari di una ferrovia nei pressi di Washington. Era il 12 aprile 1965, sconvolta scappò di casa diverse volte, e alla fine i genitori la diedero in affidamento. Fu una tragedia che la segnò profondamente e che contribuì a fare di Nan Goldin la grande fotografa che tutto il mondo conosce e apprezza come una delle maggiori esponenti di quell'arte che punta all'identificazione completa con la propria vita. "Ho iniziato a scattare foto per via del suicidio di mia sorella", dice la Goldin. "L'avevo persa. Era diventata un'ossessione, non volevo perdere mai più il ricordo di qualcuno". E così fu. Dopo aver studiato fotografia a Boston, si trasferì a New York documentando le serate, gli abusi, gli amori, le perdite, i dolori di cui i suoi amici e lei stessa erano protagonisti: un immenso album di famiglia, un diario visivo popolato da conoscenti e amanti, tossici, drag queen, donne pestate. "The ballad of sexual dependency" - il suo work in progress avviato agli inizi degli anni Ottanta, riconosciuto tra i capolavori della storia della fotografia nasce così. "È il diario che faccio leggere alle persone", ha scritto Nan Goldin nella prefazione del progetto spiegando che "il diario è una forma di controllo sulla mia vita. Mi permette di ricordare ossessivamente ogni dettaglio".
Lo sguardo di Nan Goldin abbraccia ogni momento della propria quotidianità e del proprio vissuto. "Quando sono davanti ai soggetti non esiste la macchina fotografica, esiste una relazione, accetto le cose così come sono non proietto niente di me stessa sui soggetti, non ho pregiudizi, non ho aspettative", spiega l'artista. "Ciò che mi spinge a fotografarli sono i sentimenti che nutro nei loro confront , amore, rispetto, affetto, non devo farli sembrare qualcosa che loro non sono, ne imprimere su di loro il mio segno". La sua è una infatti fotografia istintiva, incurante della bella forma, che va oltre l’apparenza, verso la profonda intensità delle situazioni, senza mediazione alcuna: persone che sperimentano l’ecstasy, il dolore provato attraverso il sesso e l’uso di droghe, la violenza domestica, i segni dell’AIDS. Molte fotografie sono apparentemente rozze, sfuocate, altre sono dotate di un equilibrio classico nei colori e nella composizione, tutte sono misteriosamente potenti. Sono un pugno nello stomaco. Colpiscono e non te le togli più dalla testa. Ed è proprio questo il suo obiettivo: si aggrappano alla mente, come in cerca di salvezza, rifugio dall’oblio.
Ma la “ballata” della Goldin non è una semplice serie di immagini. La sua forma originaria è ai limiti della performance. L’artista racconta che agli inizi degli anni Ottanta iniziò a proiettare le foto sul muro per una questione pratica e che nei primi slide show il pubblico era praticamente costituito dai soggetti delle fotografie. Lei teneva il proiettore nelle mani e se la lampadina si bruciava correva a casa a prenderne un’altra: il pubblico aspettava. Dopo gli amici commentavano lo show e proponevano modifiche e soundtrack. Fu a quel punto che il suo progetto cominciò a delinearsi come una ballata: non solo perché si ispirava in parte a una canzone dell’Opera da tre soldi di Bertolt Brecht, ma perché conteneva un ritmo, un’andatura che veniva sperimentata a ogni proiezione con una colonna sonora diversa che variava dai brani di Maria Callas ai Velvet Underground fino The Tiger Lillies. Le parole e le emozioni trasmesse dalla musica si mescolavano, e si mescolano tutt’ora, con quelle attivate dalle fotografie: il risultato è film con sottotitoli che suggeriscono storie, raccontano vite. Nella totale coincidenza del percorso artistico con le vicende di una biografia sofferta e affascinante, Nan Goldin ha indubbiamente creato un genere: studiate, utilizzate e imitate in tutto il mondo, le sue immagini sono un modello rimasto intatto fino a oggi. L'augurio è che il suo "artivismo" contagi sempre più la nostra società. Intanto una notizia positiva: la militanza paga. Vivaddio!