Pena di morte: il rumore dei pensieri di chi sta per essere ucciso
Otto anni di carcere in più a "chiunque, all’interno di un istituto penitenziario, mediante atti di violenza o minaccia, di resistenza anche passiva all’esecuzione degli ordini impartiti ovvero mediante tentativi di evasione, commessi da tre o più persone riunite, promuove, organizza, dirige una rivolta", recita il nuovo articolo 415-bis del codice penale licenziato da Palazzo Chigi. Qualora dovesse essere approvato così come è stato scritto, questo articolo cambierà la natura del carcere non in maniera educativa, come ci si aspetterebbe. Non risolve il sovraffollamento delle celle, né la mancanza di personale e delle strutture fatiscenti, né tanto meno aiuta il personale medico, gli psicologi gli infermieri; né fa qualcosa per arginare il numero crescente di suicidi: la "svolta" è autoritaria e per nulla educativa. Patrizio Gonnella, che è presidente di Antigone, spiega che per essere puniti basta poco: "Se tre persone detenute che condividono la stessa cella sovraffollata si rifiutano di obbedire all’ordine di un poliziotto, con modalità nonviolente, scatterà la denuncia per rivolta". La conseguenza è che "un detenuto entrato ad esempio in carcere per scontare qualche mese per un furto semplice, con questo nuovo reato potrebbe restarci per quasi un decennio, senza potere avere accesso ai benefici penitenziari, in quanto la rivolta viene parificata ai delitti di mafia e terrorismo". Sostituendo la vendetta alla giustizia non si risolvono i problemi di quanti vivono in carcere - siano detenuti che agenti - si appaga soltanto l’istinto con il rischio, se non si dà retta alla ragione, di ritrovarci a dibattere di pena di morte. Cosa tutt'altro che impossibile visto almeno un italiano su due vorrebbe vederla istituita: secondo un rapporto Censis, circa il 44% cittadini è favorevole all’introduzione della pena di capitale. Troppi.
Una profonda riflessione su questo tema è necessaria, e anche in questo caso viene ci viene in supporto la cultura e l'arte. Come quella della fotografa Luisa Menazzi Moretti che porta a Brescia il progetto sulla pena di morte "Ten Years and Eighty-Seven Days" con il quale ha vinto il premio dell’International Photography Awards di New York. Dal 26 novembre, al Macof – Centro della fotografia italiana di Brescia, saranno esposte diciassette opere nelle quali morte non è esibita, né ci sono innocenti o colpevoli: sono immagini che danno parola alle emozioni. Non parlano della pena, ma narrano la vita sospesa dentro il carcere di Livingston vicino ad Huntsville, in Texas, dove l’artista ha vissuto per molti anni: dal 1982 al marzo di quest’anno, lì dentro sono stati giustiziati 583 detenuti. In mostra ci sono le emozioni di uomini e donne che in attesa dell’esecuzione cercano libertà, chiedono perdono, riflettono sulla condizione cui sono costretti, maledicono o invocano il cielo, il tempo, le ore e o minuti dell’attesa. Il titolo della mostra è Dieci anni e ottantasette giorni, il tempo medio che un condannato attende nel braccio della morte dalla condanna all’esecuzione, ma non c'è nessun intento di reportage, né documentaristico. L’opera di Luisa Menazzi Moretti immortala la solitudine, i silenzi, crea uno stato d’animo e innesca una comunicazione non verbale. La sua mostra è un viaggio attraverso la sofferenza che, senza nascondere le colpe e le responsabilità, rimette al centro l’uomo. Merita assolutamente di essere visitata. (C'è tempo fino al 24 dicembre).