Letizia Battaglia alle Terme di Caracalla, fotografia come impegno civile
"Quando ho fotografato l’ho fatto perché dovevo", mi dice Letizia Battaglia smontando in pochi secondi il falso mito del “divino artefice”, del demiurgo e dell’ ispirazione sovrannaturale. Ma è in quel “dovevo” la differenza. Quel dovere, quella passione, quella responsabilità che la spinsero a fotografare Piersanti Mattarella freddato, in macchina nel sangue, accanto a lui suo fratello Sergio, oggi presidente della Repubblica. E ancora quei due scatti a Giovanni Falcone, uno ai funerali del generale Dalla Chiesa e, l’altro del magistrato che camminava velocemente davanti al Palazzo di Giustizia di Palermo. E poi l'immagine della vedova dell'agente Schifani. E ancora: le bambine, le donne, i malati mentali, la rivoluzione sociale che avrebbe portato a una liberazione dei costumi e a un'emancipazione femminile.
L'arte di Letizia Battaglia è stata militanza e lo è tutt'ora, "senza fine". I suoi scatti ci scuotono ancora oggi. Basti pensare alla mafia che esattamente trenta anni fa colpiva con le sue bombe San Giovanni in Laterano, San Giorgio in Velabro, l'Accademia dei Georgofili e gli Uffizi a Firenze. E proprio in occasione dell'anniversario è stata inaugurata alle Terme di Caracalla di Roma la mostra 'Letizia Battaglia Senza Fine', un omaggio alla fotografa siciliana paladina dei diritti civili. Sui magnifici espositori in lastre di cristallo temperato dell'architetta brasiliana Lina Bo Bardi (i cavaletes del 1968 in prestito dal Museo de Arte de São Paulo), sono esposte 92 fotografie di Letizia Battaglia che vanno dal 1971 al 2020. L'artista nel 2017 venne dichiarata, sul New York Times, fra le 11 donne più rappresentative al mondo, e poco dopo venne segnalata come Premio Nobel. Ecco la mia intervista.
Capelli rosa tagliati a caschetto, la sigaretta in una mano, la Leica nell’altra. Letizia Battaglia ti guarda dritto in faccia quando ti parla ed è impossibile non rimanere sedotti da quella luce che brilla nei suoi occhi così come si resta contagiati da quella carica di umanità che sprigiona.
Ha ottantaquattro anni Letizia Battaglia. Lei, prima donna europea premiata a New York con l’Eugene Smith (il più prestigioso dei riconoscimenti, il nobel per la fotografia), diventata famosa per i suoi scatti ai morti ammazzati dalla mafia (tra cui Pier Santi Mattarella) non ci sta a essere etichettata come fotografa e ancor meno a essere conosciuta nel mondo semplicemente come “la fotografa della mafia”: «Non diciamo sciocchezze! Io sono una persona, non sono una fotografa». E lo dice con così tanta convinzione che questa frase campeggia all’ingresso dell’antologica a lei dedicata che apre alla Casa dei Tre Oci a Venezia, curata da Francesca Alfano Miglietti. «Quando ho fotografato l’ho fatto perché dovevo», puntualizza smontando in pochi secondi il falso mito del “divino artefice”, del demiurgo e dell’ ispirazione sovrannaturale. Ma è in quel “dovevo” la differenza. Quel dovere, quella passione, quella responsabilità che la spinsero a fotografare Piersanti Mattarella freddato, in macchina nel sangue, accanto a lui suo fratello Sergio, oggi presidente della Repubblica. E ancora quei due scatti a Giovanni Falcone: uno ai funerali del generale Dalla Chiesa e, l’altro del magistrato che camminava velocemente davanti al Palazzo di Giustizia di Palermo.
Rivendica con orgoglio la necessità di fare quelle foto per portarsi a casa uno stipendio (era una reporter de L’ Ora), e rivela senza nessun problema che la fotografia è stata la sua terapia. «La macchinetta che mi ha regalato una mia amica è stata determinante. Ero una donna con tanti problemi, ero infelice, inquieta, non avevo elaborato la strada: ero madre, ma volevo essere io», ricorda. «Sono riuscita a riappropriarmi di me quando ho iniziato a fotografare». E ancora: «La fotografia l’ho vissuta come documento, come interpretazione e come tanto altro ancora. L’ho vissuta come acqua dentro la quale mi sono immersa, mi sono lavata e purificata. L’ho vissuta come salvezza e come verità».
Già, la verità. Letizia Battaglia la dice sempre. Anche lunedì durante la lectio magistralis all’ Università Iuav, in un’aula magna gremita di studenti, a un giorno dall’inaugurazione della mostra ai Tre Oci : «Non l’ho ancora vista», ha detto senza imbarazzo, «ci andrò quando apre a tutti. La visiterò come se non fossero le mie foto. Poi darò un giudizio. Ma sono terrorizzata perché so già che qualcuna non mi piacerà». Del resto la scelta dei 300 scatti esposti non è sua, ma di Francesca Alfano Miglietti, insieme a Marta Sollima e Maria Chiara Di Trapani: «Mi hanno rovesciato casa per un anno rovistando tra i negativi. Io lo so che per dieci scatti buoni ce ne sono mille di merda».
E invece quella che il visitatore si troverà davanti è una mostra decisamente potente. Non solo per le immagini iconiche, quelle per le quali è conosciuta in tutto il mondo (la bambina con il pallone, il gioco dei killer, “lei posa per me”, il ritratto di Pasolini, di Elvira Sellerio, di Berlinguer, di Guttuso dei morti per le strade di Palermo, dei poveri e delle periferie), “esplose”: ovvero accompagnate dai fotogrammi che le seguono e le precedono nella sequenza, ma perché dimostra che Letizia Battaglia non è la fotografa della “morte”, ma della vita. «Quella che c’ è nelle case, anche le più povere, quella delle feste e delle cerimonie, la vita che c’è per strada» sottolinea Francesca Alfano Miglietti. «La sua è fotografia di strada non solo perché ha imparato sul campo, ma perché è lì che si incontra la gente, ci si abbraccia e si litiga, si viene uccisi, si gioca, ci si nasconde, ci si bacia».
E in strada Letizia Battaglia prende i calci dei poliziotti che la vogliono allontanare dalle scene dei delitti, ma matura anche le sue convinzioni politiche che la vedono sempre dalla parte dei più deboli, degli emarginati, dei vessati, delle donne in cerca di emancipazione. E poi ci sono le meravigliose foto delle bambine tanto amate dalla Battaglia. «Quando incontro la ragazzina imbronciata, sulla soglia dell’ adolescenza, magra, con le occhiaie, i capelli lisci», spiega Letizia, «sono io. Cerco i suoi occhi sognanti e profondi, mi ricordano me stessa a dieci anni quando mi resi conto, di colpo, che il mondo non era poi così bello». E a proposito della bambina con il pallone immortalata nel 1980 al quartiere La Cala di Palermo racconta: «Non è posata. La vedo da lontano, sono seduta al bar. Corro verso di lei, che intanto gioca con il pallone. È molto piccola anche se sembra alta. Vado verso di lei e lei si mette così: con il braccio stancamente appoggiato sul capo. È durato tutto sette secondi, non di più. E lei stava così, con quello sguardo. Era bruttina, quella bambina».
Quanto alle donne Letizia Battaglia le elegge a protagoniste dei suoi scatti perché si sente solidale con loro: «Devono superare ancora tanti ostacoli verso la felicità in questa società che le vuole eternamente giovani, belle e con una concezione dell’ amore che spesso in realtà è solo possesso». L’ ultima ricerca è dedicata proprio a loro, nude. «Senza mutande», puntualizza Letizia Battaglia riflettendo sul fatto che nei corpi delle donne, non necessariamente belli, sta la semplicità. E racconta della tassista dell’ Utah che qualche mese fa, durante una corsa per accompagnarla a un incontro pubblico, ha acconsentito a farsi ritrarre nuda in mezzo alla neve. «Quando le ho chiesto se potevo farle delle foto non immaginavo quanta bellezza nascondesse sotto i vestiti». Allo stesso modo non immaginava che quel fiore caduto da una piantina che le avevano regalato e che lei voleva in qualche modo preservare mettendolo in un bicchiere d’ acqua, sarebbe potuto diventare una delle più belle foto a colori dell’intera mostra.
Le foto sono di Letizia Caricchia.