Vi racconto Paolo Rossi, chi era prima di essere Pablito
Da fuori non si può capire quanto possa essere costellata di imprevisti la vita calcistica di un giocatore, soprattutto a livello di infortuni. Chi vi scrive ha costruito la sua carriera andando a scovare i giovani talenti in qualità di osservatore, per poi gestirli in tutte le loro esigenze per farli diventare insieme uomini ed atleti. In quest'ottica capitava di tutto: che alcuni mancassero caratterialmente, che altri non studiassero marinando la scuola. E anche che qualcuno, dotato magari di tecnica calcistica non comune, dovesse essere seguito attentamente per sopravvenute carenze fisiche. È il caso di Paolino Rossi che, venuto giovanissimo alla Juve, ho seguito come si fa con un figlio, certo della sua riuscita come uomo e come calciatore. Non mi ero sbagliato.
Dicendolo solo a me stesso, penso di essere stato l'artefice della riuscita della sua grande carriera proprio per la mia cocciutaggine nel perseguire l'obiettivo. Lo vidi giocare, appena quindicenne, in un torneo in Abruzzo e poi lo andai a vedere nelle competizioni della sua squadra, la Cattolica Virtus di Firenze. Non ebbi mai dubbi sul suo acquisto, ma solo qualche problema nell'ambito familiare per il trasferimento a Torino, dove giocava già suo fratello che proposi di rimandare a Firenze. Inizialmente il padre oppose delle resistenze, ma poi, rassicurato dalle mie parole circa l'avvenire di Paolo, diede il suo benestare e così i due fratelli poterono scambiarsi la residenza. Paolo venne a Torino e mise in mostra tutte le sue grandi qualità.
I GUAI ALLE GINOCCHIA
Poi però, con l'andar del tempo, cominciarono ad affiorare in lui problemi fisici notevoli: era infatti debole nelle ginocchia per mancanza di menischi. Per questo fu difficile trovare una società che lo potesse far giocare e curare. Provai a darlo al Como con un diritto di riscatto della comproprietà, che alla fine i lariani non esercitarono. Non mi persi però di coraggio e l'occasione capitò quando GB Fabbri, allenatore del Lanerossi Vicenza, telefonò a Boniperti per chiedergli Vinicio Verza, un giocatore che lui aveva avuto a Cesena con ottimi risultati ma che io, nel frattempo, stavo trattando con il Varese di Guido Borghi, con il quale intrattenevo buoni rapporti per aver acquistato da lui Claudio Gentile. Tentai allora di forzare la mano a GB Fabbri facendogli capire che gli avrei dato Verza solo se avesse preso in prestito anche Rossi, e l'allenatore vicentino, pur di prendere Verza, accettò la proposta.
Paolo fece la riserva per tutto il girone di andata ma poi, a seguito della morte del centravanti Vitali (in un incidente automobilistico), venne promosso titolare e con 24 reti al suo attivo iniziò la sua carriera di grande campione. Io in quel momento provai la gioia di chi si sentiva ripagato per aver creduto in qualcosa che stava prendendo corpo. In quel tempo fui chiamato dal presidente Anzalone a dirigere la Roma e Boniperti, che evidentemente non aveva molta fiducia nelle condizioni fisiche di Rossi, acquistò Virdis dal Cagliari e perse le buste con il Vicenza di Farina che si assicurò così la totale proprietà di Paolo. Ma ormai la carriera di Rossi era diventata inarrestabile e il Campionato del Mondo del 1982 in Spagna, vinto dalla nostra Nazionale, rappresentò il suggello delle doti da gran campione di Paolo che poi vinse il Pallone D'Oro.
Pochi mesi addietro Paolo e la moglie Federica vennero a Torino per intervistarmi rievocando quei bei momenti per un docufilm che stavano girando sulla sua vita di calciatore. Ricordo la gioia di quell'incontro che ripercorreva le fasi iniziali della sua carriera, rivedo il sorriso e la felicità di Federica nel rivivere le tappe essenziali che poi hanno costituito l'asse portante della carriera di suo marito. Poi di colpo, e del tutto inaspettata, la tristezza nell'apprendere della morte. In quel momento non ho potuto che piangere al pensiero che le persone buone come Paolo non dovrebbero mai andarsene. E non parlo del campione, mi riferisco all'uomo.