Giornata mondiale della consapevolezza sull'autismo
Ieri si è celebrata la giornata mondiale della consapevolezza sull’autismo, una ricorrenza che per chi non conosce la tematica è un’occasione per informarsi e capire, per chi invece vive l’autismo quotidianamente, è il giorno della speranza, speranza che con la conoscenza qualcosa possa cambiare e soprattutto migliorare. Io di giornate di consapevolezza ne ho vissute sette con forte partecipazione, anche se in realtà ne avrei dovute contare ventisette. Questo perché mio fratello Athos è autistico, ma è stato diagnosticato a vent’anni nonostante fosse seguito da psicologi fin dalla tenera età. Ricordo le sue parole all’uscita dal centro che ci aveva appena dato la valutazione psico e neuro diagnostica di sindrome dello spettro autistico: “...beh, almeno adesso so che cos’ho”. Sì, perché in effetti fino a quel momento Athos si sentiva, ed evidentemente era, “particolare”, ma nessuno ci aveva mai spiegato le motivazioni di quella sua particolarità.
Da quel giorno di strada ne abbiamo fatta parecchia, pur consapevoli che se la diagnosi fosse arrivata almeno quindici anni prima, mio fratello si sarebbe risparmiato tanto dolore e noi famigliari avremmo potuto gestire la situazione in maniera decisamente migliore. Athos è un autistico ad alto funzionamento, un ragazzo con la sindrome di Asperger, e fino al momento della diagnosi era semplicemente un tipo strano, solo, emarginato, bullizzato e per questo molto infelice; uno dei tanti ragazzi “diversi” dai neurotipici – come usa chiamarci lui – che per questo veniva abbandonato a se stesso, lasciato in un angolo ed escluso dal gruppo.
Questo è ciò che accade alle persone come mio fratello, perché non conoscere significa non sapere che gli autistici sono persone pure, sincere, senza sovrastrutture e molto, molto sensibili; allo stesso tempo hanno enormi difficoltà a comunicare, ad entrare in empatia con gli altri, a fare più cose contemporaneamente. Se li sottoponiamo a forti stress - che per noi sono inesistenti, ma per loro ingestibili – come ad esempio stare tra la gente, trovarsi in contesti rumorosi o con luci forti, essere obbligati a stare seduti o fermi, salutare qualcuno stringendogli la mano e allo stesso tempo guardandolo negli occhi, li induciamo in una condizione di tale pressione da farli letteralmente scoppiare con urla e reazioni di forte rabbia e aggressività che noi non comprendiamo e che quindi ce li fanno apparire strani.
Gli autistici non sono malati, svogliati, incapaci di seguire le regole comuni, hanno semplicemente una differente conformazione del cervello e come tale non può essere curata o modificata; è così e basta. Non si può pretendere da loro ciò che non possono fare o farli sentire alienati perché non sono in grado di uniformarsi a ciò che è considerato normale per noi neurotipici.
In un discorso che Athos ha fatto ieri in occasione di una manifestazione dedicata alla giornata sull’autismo, ha espresso un concetto che ha ammutolito tutti: ogni anno si parla di consapevolezza sull’autismo, si fanno discorsi, si generano iniziative, si butta tanto entusiasmo in una giornata simbolica; poi il tempo passa, nulla accade e ci si ritrova l’anno seguente a riparlare di consapevolezza che il tempo non ha comunque fatto acquisire nei fatti, mentre la quotidianità di chi è davvero consapevole di cos’è l’autismo, perché lo vive sulla propria pelle, non cambia di una virgola.
Io non lo so se il problema sia dovuto al fatto che se ne parla ancora troppo poco, se alle persone non interessa davvero capire, o semplicemente perché l’autismo viene visto ed immaginato nella sua forma più grave che non consente a chi ne è affetto di comunicare e di avere un minimo di autonomia. L’autismo è tanto di più; si parla di spettro autistico proprio perché, pur nella condivisione di certe difficoltà, le forme in cui si manifesta sono diverse e toccano aspetti differenti della persona e del suo comportamento.
Probabilmente la verità è che si fa fatica a vivere la diversità. D’altronde chi ha queste specificità non può andarsene in giro con un tatuaggio sulla fronte con scritto “sono autistico” per far si che la gente sappia e lo includa. Di certo poter frequentare contesti protetti come l’azienda per la quale Athos lavora, la quale gli consente di non essere sottoposto alle pressioni di un ambito lavorativo che esige il rispetto di regole e consuetudini che per lui sono ingestibili, oppure di frequentare amici che hanno simili specificità e che quindi non lo fanno sentire “diverso”, avere supporto adeguato durante gli studi e soprattutto far capire a chi lo circonda il perché lui appare strano è sicuramente un buon modo per iniziare un processo di inclusione e per far sentire “normali” nella propria divergenza persone che sono nate così e che non lo hanno di certo voluto.