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The Good Friends

Iris Devigili Cattoni
Iris Devigili Cattoni

Ha una laurea in scienze storiche cui sono seguiti due master in Marketing, comunicazione e social media e in Marketing strategico. Da oltre dieci anni è consulente di marketing e comunicazione digitale ed è stata docente per i master post laurea alla Business School de Il Sole 24 Ore. Autrice del libro “Buyer Personas. Comprendi le scelte d'acquisto dei clienti con interviste e Modello Eureka!”, ha scritto diversi contributi per pubblicazioni di colleghi e amici. Si dedica alla scrittura e conduzione di trasmissioni televisive, modera dibattiti, presenta libri e coltiva la sua passione per l'uso della voce. Patita di sport, si divide tra running e padel.

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“Se nella mia carriera devo arrestare anche solo un innocente, fammi bocciare oggi.”
Chi fece questa preghiera prima di sostenere l’esame orale di magistrato è una donna che, forte di quella rassicurazione chiesta a Dio, porta avanti il suo lavoro con sicurezza e determinazione.
Sto parlando di Alessandra Cerreti, il magistrato le cui indagini sono state raccontate nelle fortunata serie tv The Good Mothers e il cui personaggio – nella fiction prende il nome di Anna Colace - è interpretato da Barbara Chichiarelli.
Per chi non l’avesse vista, The Good Mothers racconta la storia vera di tre donne, cresciute in importanti cosche ‘ndranghetiste, che decidono di collaborare con la giustizia a rischio della propria vita.
A capo dell’operazione un magistrato, anch’essa donna, che intuisce il ruolo determinante delle cosiddette “sorelle d’omertà”, figure femminili testimoni di un mondo che le sottomette e le segrega, ma del quale sono parte integrante e ne conoscono perfettamente le dinamiche.

Bene, la mente geniale e disruptive che nel 2010 ebbe questa felice intuizione, per me non è solo un nome e un viso visto sui media, ma è una grande amica, una delle persone per cui nutro più stima ed ammirazione in assoluto. Stima per quello che fa, ammirazione per quello che è.
Alessandra Cerreti, messinese, fin da piccola avverte l’odore di Cosa Nostra nella sua Sicilia ed è giovanissima quando, guardando in primis a Giovanni Falcone, decide che la sua vita sarà dedicata a combattere la mafia.
Un paio d’anni dopo la vincita del concorso in magistratura, diventa giudice al tribunale penale di Milano sella sezione criminalità organizzata e nel 2010 si presenta quella che lei ritiene essere una grande opportunità: trasferirsi alla procura di Reggio Calabria con funzioni di Pubblico Ministero.

Già questo primo evento, che raccontato così può sembrare banale e senza particolare significato, è invece un indicatore della determinazione e del coraggio di Alessandra.
Innanzitutto l’aver scelto un percorso professionale che ricalca quello dei suoi miti Falcone e Borsellino, ma che è generalmente poco frequente in magistratura, ossia iniziare la carriera con funzioni giudicanti per passare poi a quelle inquirenti. 
In secondo luogo, l’aver richiesto il trasferimento a Reggio Calabria ed ora spiego il perché.
In quegli anni la Procura di Reggio Calabria era sotto organico e l’atmosfera molto tesa, tant’è che il 3 gennaio 2010 fu fatta esplodere una bomba davanti alla Procura Generale.
In quel clima difficile, l’unica che rispose all’interpello fatto per portare magistrati a Reggio Calabria fu Alessandra, che il 23 gennaio 2010, dopo venti giorni dall’attentato in Procura, prese funzioni. Questo evento fu tanto eccezionale che anche i giornali ne parlarono.

Arrivata in sede, le venne affidato il procedimento che oggi fa parlare di lei attraverso la serie The Good Mothers e di cui allora nessuno voleva prendersi carico.
Il procuratore Pignatone la portò in una stanza sui cui scaffali si trovavano cento faldoni – i cento pacchi menzionati nella fiction – e le disse di studiare tutte le indagini fatte fino a quel momento sui Pesce, famiglia a capo della ‘Ndrangheta calabrese, e di spiccare un provvedimento di fermo per gli appartamenti a quella cosca mafiosa nel giro di novanta giorni.
In quei tre mesi Alessandra lavorò letteralmente giorno e notte, ma riuscì a raggiungere l’obiettivo e il 26 aprile del 2010 partì la maxi operazione “All inside” che portò all’arresto di quaranta mafiosi, di cui dodici donne appartenenti alla cosca Pesce; nei mesi successivi ebbero luogo altre due operazioni che portarono il numero degli arrestati a più del doppio e alla confisca di beni per 230 milioni di euro.

È in questo contesto che si inseriscono le storie di Maria Concetta Cacciola, Giuseppina Pesce e Rosa Ferraro, di cui la serie tv non parla, ma che ha avuto un ruolo importante per le indagini; indagini che portarono Alessandra ad essere in prima linea in un maxi processo di 87 detenuti e con la prima collaboratrice di giustizia ad aver mai testimoniato contro la famiglia.
Non so se chi legge possa rendersi conto di cosa significhi un processo di questo tipo, ma di certo incontrando Alessandra per strada, un’esile donna curata, elegante, raffinata, di cui si coglie subito la femminilità e bellezza, difficilmente si potrebbe immaginare che abbia la tempra per sostenere una simile situazione.
Un’aula bunker con 87 mafiosi nelle gabbie che imprecano e minacciano; il padre di Giuseppina Pesce che urla: “Non la vogliamo questa qui” perché non accetta di trovarsi davanti ad una donna che, per cultura, considera inferiore, la presenza del GOM (Gruppo Operativo Mobile) necessario per mantenere l’ordine in aula, vetri blindati richiesti al ministero per separare il pubblico dall’aula d’udienza e le gabbie dagli avvocati.

Un’atmosfera che solo gli attori del processo e le trecento persone che affollavano l’aula possono comprendere.
Si pensi che alla lettura della sentenza, Palmi – la città dove si tenne il processo - era invasa da sostenitori degli imputati venuti unicamente per assistere ad uno degli eventi giudiziari al tempo di maggior rilievo; in aula bunker, mai accaduto in Italia, alle spalle di Alessandra e del procuratore Cafiero De Raho, erano schierate le sette forze dell’ordine che lei aveva coordinato durante le indagini: Polizia, Guardia di Finanza, Carabinieri, ROS, Polizia penitenziaria e Polizia locale. Ci vollero sei ore per far defluire i presenti e durante tutto quel tempo Alessandra rimase chiusa in cancelleria perché troppo pericoloso uscire.
In queste righe ho cercato di raccontare l’incredibile coraggio e lo straordinario temperamento di Alessandra Cerreti, ma non ne ho restituito lo spirito di sostegno e di protezione che ha avuto per le donne che ha reso eroine in quel procedimento.
Alessandra conosce molto bene le dinamiche mafiose, le domina e le coglie nei dettagli in cui si manifestano, motivo per cui ha saputo essere un supporto determinante per Giuseppina Pesce e per le altre testimoni di giustizia.

Avendo intuito quanto importante fosse far percepire ai giudici – tutte e tre donne - la profonda sofferenza e verità contenute nelle parole delle collaboratrici di giustizia, e al contempo quanto pericoloso fosse per loro, detenute a Milano e Roma, essere portate a Palmi per testimoniare, chiese e riuscì ad ottenere che i loro processi si svolgessero nelle aule bunker delle carceri di San Vittore e di Rebibbia. In quei contesti difficili - testimonianze che iniziavano alle nove del mattino e si concludevano alle venti della sera per giorni e giorni - Alessandra ebbe un ruolo determinante a supporto delle collaboratrici; rimase al loro fianco tutto il tempo trasmettendo la forza interiore necessaria a sostenere una situazione tanto difficile.
Il suo supporto fu forte e importante ogni qual volta alle collaboratrici vennero lanciati segnali intimidatori, messaggi che richiamano quel “sangue lava sangue” per cui è il fratello che deve far si che il nome della famiglia venga pulito e che la sorella paghi con la vita per il tradimento.
E di minacce, più o meno dirette, ne ha ricevute tante anche lei; ha ascoltato intercettazioni in cui si diceva: “bisogna farla saltare in aria”, “le cavo gli occhi a quella”, “bisogna mettere un investigatore privato per sapere dove va”; trovò dei bossoli sul balcone di casa, le arrivarono lettere anonime dalle quali era evidente che veniva pedinata e che i suoi spostamenti erano conosciuti; entrarono in casa sua, le clonarono il computer e le rubarono dei documenti, le lasciarono messaggi che solo chi sa interpretare il codice mafioso è in grado di cogliere.

 

Nonostante tutto questo, Alessandra non ha timore, anzi ripete sempre che è la mafia a dover avere paura, perché lei rappresenta lo Stato che non arretra e si sente onorata e orgogliosa di farlo in battaglie tanto difficili e impegnative.
Dallo Stato si sente protetta e finché sarà così si sentirà serena, questo è ciò che pensa, ma anche la protezione di cui gode ha un prezzo, e questo lo dico io che conosco la sua quotidianità. 
Essere Alessandra Cerreti significa avere una libertà personale e una privacy limitate; significa avere la scorta con due auto blindate e cinque carabinieri che la affiancano in ogni suo movimento; significa non poter decidere all’ultimo momento dove andare a cena, non poter entrare in un locale sola, non soggiornare in un hotel senza aver prima preventivato di farlo e controllato chi vi alloggia, “condividere” il tempo libero con almeno quattro carabinieri che la seguono sempre.
Non è una vita facile, soprattutto perché la scorta è con lei a causa delle minacce di morte ricevute.
Eppure chi fa il suo mestiere mette in conto tutto questo, ritiene che valga la pena correre dei rischi pur di fare un lavoro che ama e che considera un onore poter svolgere.

Tanto altro ci sarebbe da raccontare di lei, ma già questo penso basti a far capire chi è Alessandra Cerreti, una donna che ha saputo capire e valorizzare altre donne per contrastare la criminalità organizzata; una donna che si è dedicata alla loro tutela e a quella dei figli; che non solo in loro ha trovato la chiave di volta per scardinare un sistema mafioso importante, ma che ha dato il la allo sviluppo di un protocollo diventato nazionale nel 2019: “Liberi di scegliere”. 
Questo protocollo rivoluzionario nella tutela delle donne di mafia, le aiuta a staccarsi dalla famiglia d’origine e a consentire ai propri figli di uscire dalla cultura mafiosa, di sottrarsi all’indottrinamento e di condurre una vita diversa da quella cui sarebbero destinati. 
Si tratta di uno strumento che non solo offre delle opportunità a ragazzi che diversamente avrebbero una sorte segnata, ma toglie anche manovalanza alla mafia che in loro troverebbe braccia devote al crimine.
Tanto altro ci sarebbe da raccontare di Alessandra Cerreti, delle sue battaglie come magistrato e della sua meravigliosa personalità, ma mi fermo qui e mi scuserete se tengo per me la sua parte più intima e la nostra amicizia speciale.

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