Se il racconto d'Italia cambia registro
Nuovo corso della televisione di Stato: la narrazione patriottica del Paese parte dai piccoli centri. Che comincia con Verdi e Mazzini alla chitarra...
Genova come covo di menti ribelli, a cominciare da Giuseppe Mazzini che suona la chitarra come Bob Dylan, passando da Paganini che usa il violino come un moschetto e per finire con De Andrè, il bombarolo delle convenzioni sociali.
L’Umbria terra di mistica pop, con San Francesco santo globale molto pop. Napoli che, in nome della dea Partenope, fa da ponte culturale fra nord e sud. Parma e l’opera di Verdi lette come epicentro dell’amor di patria.
Pochi l’hanno notato. Ma c’è nelle puntate de Il Provinciale (già in prima serata su Raitre, oggi spopola su Ray Play) dedicate ai luoghi d’Italia, c’è l’avvisaglia e c’è l’obiettivo del nuovo corso culturale della tv di Stato. Mi spiego. Il Provinciale è, formalmente, un ottimo programma di racconto e divulgazione del territorio con striature naturiste, condotto con efficacia dal radiofonico Federico Quaranta. Il sottotitolo del programma, Il racconto dei racconti, nasce nello spirito fiabesco di Giambattista Basile, ma, intrecciando Linea Verde con Apostrophe e i programmi storici di Paolo Mieli, di fatto, attraverso l’architettura narrativa orchestrata dal direttore dell’intrattenimento day time Angelo Mellone, rappresenta l’autentico tentativo di ri-narrazione conservatrice della Rai sulla storia d’Italia, senza l’uso dei talk show o dei notiziari.
Attraverso interviste a intellettuali, scienziati, artisti, un racconto sincopato e l’uso abbondante di droni da ripresa, affiora un’idea di nazione che permea dialoghi e sceneggiatura.
Lo si nota, in particolare, nella puntata su Giuseppe Verdi annunciata da una voce che rimbomba tra il foyer del Teatro la Scala e quello del Regio di Parma: «Vi racconto una storia straordinaria, di come una musica abbia cambiato il destino di una nazione intera, e di come le arie di Verdi soffiano sulle fiamme dell’unità che arde sotto la cenere della sconfitta». Da qui, il documentario si snoda tra la valle del Po percorsa in canoa e l’intervista allo storico (di destra) Alessandro Campi che parla dello «sconquasso geopolitico senza precedenti delle grande armata napoleonica attraverso l’Europa»; del Congresso di Vienna, della Restaurazione dell’altra rivoluzione nel 1830 rivoluzione in Francia, alla Giovane Italia di Mazzini, ai moti del 1831. Eppoi ecco disvelarsi la scena ambientata nel Conservatorio di Parma che prima bocciò e poi esaltò Verdi nel tempo in cui «da più parti e più ambienti si sente sempre più impellente il desiderio di unità nazionale»; ed ecco la banda di Busseto che suona l’inno di Mameli, accompagnata dal coro dei cittadini distratti dal gioco dello scopone tra i tavoli d’un bar; ed ecco un rapido stacco sul Cimitero Monumentale di Milano dove con «pace e solennità, riposano nomi illustri del nostro Paese molti dei quali hanno che hanno donato la vita per l’unità d’Italia».
Poi compare Gene Gnocchi (di sinistra, ma solido conservatore) che pianta una sedia nella piazza del Duomo parmigiana e, all’ombra dello storico battistero descrive il «carattere dell’emiliano, è estremamente fantasioso perché è costretto a supporre quel che non vede nella nebbia», rivelando di quando faceva Gesù Bambino nel presepe vivente di Fontanellato. Eppoi, si palesano lo storico dell’arte Costantino d’Orazione e la soprano Renata Campanella. Ne esce un messaggio politico di ripristino della memoria in chiave- oserei- sentitamente patriottica, per l'appunto...