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L'ultimo tango di mister Brando

'ossessione per le donne, il talento puro, la famiglia a pezzi: ritratto in chiaroscuro del mito

Francesco Specchia
Francesco Specchia

Francesco Specchia, fiorentino di nascita, veronese d'adozione, ha una laurea in legge, una specializzazione in comunicazioni di massa e una antropologia criminale (ma non gli sono servite a nulla); a Libero si occupa prevalentemente di politica, tv e mass media. Si vanta di aver lavorato, tra gli altri, per Indro Montanelli alla Voce e per Albino Longhi all'Arena di Verona. Collabora con il TgCom e Radio Monte Carlo, ha scritto e condotto programmi televisivi, tra cui i talk show politici "Iceberg", "Alias" con Franco Debenedetti e "Versus", primo esperimento di talk show interattivo con i social network. Vive una perenne e macerante schizofrenia: ha lavorato per la satira e scritto vari saggi tra cui "Diario inedito del Grande Fratello" (Gremese) e "Gli Inaffondabili" (Marsilio), "Giulio Andreotti-Parola di Giulio" (Aliberti), ed è direttore della collana Mediamursia. Tifa Fiorentina, e non è mai riuscito ad entrare in una lobby, che fosse una...

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Marlon Brando in Un tram che si chiama desiderio Foto: Marlon Brando in Un tram che si chiama desiderio
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Probabilmente, quel suo soffocare - come scriveva Joyce Carol Oates- la bellezza nel grasso in tarda età, fu per lui una sorta di lavacro penitenziale. Doveva recuperare quel poco d’anima perduta dai tempi di Stanley Kowalski, il grezzone in canottiera interpretato in Un tram che si chiama desiderio.
Dev’essere andata così. La bellezza, per Marlon Brando era stata il mezzo per imporre il proprio talento, ma anche per sedurre il mondo. Aveva sedotto chiunque, quel simulacro di arte e carne: dal suo pubblico a Marilyn Monroe («C’eravamo conosciuti subito dopo la guerra e mi ero nuovamente imbattuto, alla lettera, in lei durante una festa a New York. Mentre gli invitati bevevano e ballavano, lei se ne stava seduta in un angolo, quasi ignorata da tutti, e suonava il piano»), dai politici all’ Academy, dagli attivisti per i diritti civili, su arrivando fino al grottesco: «Quanto più difficile era sedurre una donna, tanto più mi impegnavo per riuscire. Una delle mie fantasie è sempre stata quella di avere rapporti con una suora. E una volta, in ospedale, ho anche tentato; si chiamava suor Raphael ed era veramente bellissima». Ecco, in queste ultime parole di Brando si ritrovano il personaggio, l’uomo, il totem: tutti descritti nella formidabile autobiografia del – probabilmente - più grande attore di tutti i tempi, La canzoni che mi insegnava mia madre (con Robert Lindsey, pp 465, euro 20) ripubblicata oggi da La Nave di Teseo.
Il titolo del libro parte dal rapporto di Brando con la genitrice. «Mia madre conosceva ogni canzone che fosse mai stata scritta. Per ragioni a me sconosciute, forse per farle piacere, ne ho imparate a memoria più che potevo. Ancora oggi so migliaia di canzoni che mi ha insegnato mia madre. Non sono mai riuscito a memorizzare il numero della mia patente di guida e ci sono stati momenti in cui non ricordavo neanche il mio numero di telefono, eppure mi basta sentire una canzone anche una sola volta per ritrovarne la melodia e i testi. Conosco canzoni africane, cinesi, tahitiane, francesi, tedesche», ma poi aggiungeva che, data l’atmosfera di guerra perenne in famiglia, probabilmente sarebbe cresciuto meglio in un orfanatrofio.
La storia di Brando, in realtà è quella di un mito semovente che spesso s’è lasciato dissipare: è la storia di Marlon Brando, l’ultimo mito del cinema: selvaggio come l’antieroe de Il selvaggio, musicarello in Bulli e pupe, ribelle nella giacca di pelle di Fronte del porto, implacabile e maestoso Don Corleone nel Padrino, scandaloso esausto dalla vita in Ultimo tango a Parigi, dannato come il colonnello Kurtz in Apocalypse Now, «mi piace l’odore del napalm al mattino».
Ma non è una storia molto dissimile da molti suoi colleghi. Brando nacque nel Nebraska nel 1924. Suo padre Marlon Sr. era un operaio chimico mentre sua madre, Dorothy casalinga. Disastroso come studente, iniziò la carriera da attore nella prima adolescenza, proponendosi come mimo ed esperto in versi d’animali; Marlon venne spedito alla scuola militare dove divenne giullare del gruppo. Lìì incocciò in Earle Wagner, il primo a riconoscergli il potenziale spingendolo a studiare recitazione. Espulso da tutte le accademie del regno, Brando decise di inseguire il sogno dell’attore,si trasferì a New York. Nella Grande Mela studiò con stelle del calibro di Elia Kazan e Stella Adler, che gli insegnarono il metodo Stanislavskj, la tecnica di recitazione basata sull’approfondimento psicologico del personaggio, idea che lui spinse a livelli estremi.
Per esempio, nella commedia di Broadway Truckline Cafe, il personaggio di Brando doveva apparire in scena emergendo da un lago ghiacciato. Ogni sera, per prepararsi alla scena, l’attore faceva degli esercizi fisici fino a restare senza fiato, dopodiché si faceva gettare un secchio d’acqua ghiacciata in testa così da ricreare la sensazione fisica. Ma basta puntare il dito a caso su una pagina qualsiasi della sua biografia, per fare uscire un Brando ogni volta inedito. Vado random. Il rifiuto dell’Oscar per la causa indiana, la genesi di Ultimo tango, il rapporto con i colleghi («David Niven era uno di quegli attori inglesi che, come Laurence Olivier, rifiutava di adattarsi al personaggio, non usava mai un accento che fosse inferiore al proprio livello sociale») e con i registi («A parte Kazan e Bertolucci, il regista migliore con il quale ho lavorato è stato Gillo Pontecorvo, anche se siamo stati sul punto di ammazzarci), gli undici figli quasi tutti con problemi, il buen retiro all’isola di Tetiaroa.
Brando resta la star riottosa, che travolse le convenzioni del cinema, col corpo da pugile e il volto da bambino: uno che - commenta nella prefazione Giulio Base- sul set non fingeva, ma viveva. La mia immagine preferita di Brando rimane quella degli Ammutinati del Bounty: lui in divisa, sulla tolda della nave, che scruta un futuro che l’avrebbe divorato...

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