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I 50 anni di Happy Days (quando i sogni erano veri)

Le storie dei Cunningham tenevano lontani Guerra Fredda e terrorismo. Fonzie macho, papà massone, famiglia tradizionale: oggi il politicamente corretto non lo tollererebbe

Francesco Specchia
Francesco Specchia

Francesco Specchia, fiorentino di nascita, veronese d'adozione, ha una laurea in legge, una specializzazione in comunicazioni di massa e una antropologia criminale (ma non gli sono servite a nulla); a Libero si occupa prevalentemente di politica, tv e mass media. Si vanta di aver lavorato, tra gli altri, per Indro Montanelli alla Voce e per Albino Longhi all'Arena di Verona. Collabora con il TgCom e Radio Monte Carlo, ha scritto e condotto programmi televisivi, tra cui i talk show politici "Iceberg", "Alias" con Franco Debenedetti e "Versus", primo esperimento di talk show interattivo con i social network. Vive una perenne e macerante schizofrenia: ha lavorato per la satira e scritto vari saggi tra cui "Diario inedito del Grande Fratello" (Gremese) e "Gli Inaffondabili" (Marsilio), "Giulio Andreotti-Parola di Giulio" (Aliberti), ed è direttore della collana Mediamursia. Tifa Fiorentina, e non è mai riuscito ad entrare in una lobby, che fosse una...

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Il cast di Happy Days Foto: Il cast di Happy Days
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C’era un tempo in cui la nostra generazione, felicemente esausta, si divideva tra Fonzie e Richie Cunningham. Negli anni 80, il rito quotidiano di Happy Days, del nostro viaggio nel mondo (apparentemente) perfetto, si consumava ogni giorno, alle 19.20, sul canale Rai del pensiero unico, e senza telecomando.
Noi fratelli ci accoccolavamo sul divano, stretti come dentro una decappottabile da Drive in nella Milwaukee degli anni 50. Dal tinello mamma lasciava esalare l’odore della cena; papà rientrava dal lavoro sempre più somigliante a Howard Cunningham, stessa saggezza bonaria, stesso sorriso stiracchiato ma senza il fez della Loggia del Leopardo. E, in quel preciso istante partiva la sigla rock’n roll: Happy Days are Here Again («Sunday Monday happy days/ Tuesday Wednesday happy days/ Rockin’ all week for you»). E il tempo si fermava, la tv ci colorava di bianconero; e venivamo risucchiati nei favolosi anni del boom a stelle e strisce. E il sogno faceva da mastice: una famiglia sana e unita, tale e quale ai Cunningham, senza smartphone e social network conficcati tra le costole. Tutti quei gesti si condensavano nel tuffo carpiato in un’eterna età dell’innocenza. Il rito di Happy Days durò perla parte migliore della giovinezza. Oggi se ne festeggi il 50° genetliaco non dovrebbe lasciarci abbandonare alla deriva della nostalgia, pur se la tentazione è forte.
L’OTTICA DEL TINELLO Dal punto vista storico, il telefilm più bello del mondo, nacque nel 1973 come costola del film American Graffiti, da un’ idea di Michael Eisner della Abc; doveva chiamarsi “Cool”, se non fosse che alla proiezione di prova gli spettatori avevano scambiato quel titolo per una marca di sigarette. La scelta di “Happy Days” richiamava “Giorni felici” l’omonima pièce di Samuel B. Beckett; e forse pure noi, col senno di poi, abbiamo vissuto come Willie, la protagonista di quel teatro dell’assurdo: narcotizzati da quell’atmosfera da esercito della salvezza, lontani dalla brutture del mondo, immersi in un rassicurante cumulo di sabbia. Credo fosse una questione, appunto, di tinelli e di ansiolitici.
Nel ristretto spazio del tinello dei Cunningham, osservare le loro piccole vite di provincia era come addormentarsi nei campi freschi di trebbiatura dell’America rurale, tra stereotipi invincibili: le casette con giardino, Sottiletta Cunningham al primo bacio con Chachi, Ralph e Potsie amiconi per la vita, l’eterno cazzeggio all’hamburger sui tavolini da Arnold’s e tutto il resto. Fuori da quel tinello-rifugio infuriava il maccartismo, e i conflitti sparsi come polline in un mondo di api impazzite. Poi c’era il nostro, di tinello. Da dove il risveglio era quello in un’Italia livida che passava dagli annidi piombo a quelli di merda (come scriveva Giorgio Bocca), tra i baci mafiosi e i baci di Giuda, la crisi del petrolio e i referendum per aborto e divorzio. E Happy Days era il nostro Tavor: teneva fuori dall’uscio i Moloch e le cattive maniere La sua architettura lo rendeva un po’ il ponte d’una vibratile illusione che partiva dagli strascichi del New deal rooseveltiano (che non avevamo mai vissuto), s’innalzava sull’ultimo sussulto del terrorismo (che avevamo vissuto di sguincio) e virava verso le vergini di ferro di Inspiration Point, e i cessi trasformati in santuari delle psicanalisi, e l’amicizia virile tra collegiali che arrossivano ad annusare il sesso (che avremmo voluto vivere): tutta roba spruzzata di ketchup e di buoni sentimenti. Che poi - se ci si pensa- oggitutto questo avrebbe vita grama: tutti gli elementi di sceneggiatura di Happy Days ai nostri giorni verrebbero soffocati dal politically correct. Tutti. Lo schioccar di dita di Fonzie per circondarsi di stangone morbide di forme e di sinapsi, con il resto dell’armamentario maschilista; e l’assoluto disprezzo delle minoranze (sfilavano solo i bianchi e i laccati, non un nero a pagarlo, l’unico asiatico era il ristoratore che parlava l’inglese come Don Lurio l’italiano); e i massoni che si trovavano, oltre l’orario di chiusura della ferramenta Cunningham di famiglia come al Rotary Club. Torniamo a bomba. Fonzie e Richie. Il teppista alla James Dean col cuore di burro e il bravo ragazzo secchione dotato di famiglia normale e fratello militare nella guerra di Corea: il dualismo lampeggiava di psicanalisi.
TRA RICHIE E FONZIE Molti di noi, a quei tempi, andavano a scuola col giubbino di pelle e i pollici alzati accompagnati da quell’espressione onomatopeica («Hey...») che strideva con gli occhialini a fondo di bottiglia e l’apparecchio ai denti. Molti di noi, sognavano Fonzie, e un po’ si vergognavano d’essere solo Richie Cunningham. S’intravvedeva, in fondo, una certa reticenza nel galleggiare in una famigliola borghese da messa alla domenica mattina e pastarelle al pomeriggio; nell’ingobbirsi sui libri; nell’avere le efelidi pure dentro e –faticosamente- una sola morosa alla volta. Eravamo tutti uno stormo di Richie Cunningham: la sfiga con gli incisivi separati, la zazzera rossa e le scarpe da tennis.
Fu una realtà dura da digerire, specie durante l’adolescenza. Ora, passato mezzo secolo, i conti tornano. Fonzie/Henry Winkler, s’è perso per strada, è un panciuto 78enne aggrappato al suo mito; Richie/Ron Howard, premio Oscar, è tra i registi di cinema più ricercati del mondo. Anche a questo è servito Happy Days: la frequentazione di quel divano al glucosio ci ha dotati di speranze indelebili, almeno per le prossime due generazioni ...

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