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Se il Mullah Dibbah diventa superstar delle tv arabe

Il video di Di Battista che litiga in tv per la Palestina fa il boom di condivisioni sui media islamici. Adesso è il nuovo idolo degli estremisti di tutto il mondo

Francesco Specchia
Francesco Specchia

Francesco Specchia, fiorentino di nascita, veronese d'adozione, ha una laurea in legge, una specializzazione in comunicazioni di massa e una antropologia criminale (ma non gli sono servite a nulla); a Libero si occupa prevalentemente di politica, tv e mass media. Si vanta di aver lavorato, tra gli altri, per Indro Montanelli alla Voce e per Albino Longhi all'Arena di Verona. Collabora con il TgCom e Radio Monte Carlo, ha scritto e condotto programmi televisivi, tra cui i talk show politici "Iceberg", "Alias" con Franco Debenedetti e "Versus", primo esperimento di talk show interattivo con i social network. Vive una perenne e macerante schizofrenia: ha lavorato per la satira e scritto vari saggi tra cui "Diario inedito del Grande Fratello" (Gremese) e "Gli Inaffondabili" (Marsilio), "Giulio Andreotti-Parola di Giulio" (Aliberti), ed è direttore della collana Mediamursia. Tifa Fiorentina, e non è mai riuscito ad entrare in una lobby, che fosse una...

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Dibba tradotto in arabo Foto: Dibba tradotto in arabo
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Niente di nuovo sul fronte occipitale. Delle molte facce di Alessandro Di Battista il prisma luminoso di una rivoluzione popolare che tarda sempre ad accendersi, s’è detto di tutto.
Come s’è sempre parlato del suo affabulante eloquio che nel 2016, in pieno stragismo islamista, gli fece affermare «Sto con l’Isis, vanno capiti»: una stronzata potente per chiunque altro ma una frase discutibile seppur «estratta da un complicato contesto» se pronunciata da lui. Quindi non può stupire che Dibba, a DiMartedì, nel salotto di Giovanni Floris, abbia rispolverato il suo armamentario anti-Israele e pro-Hamas paragonando il primo ai nazisti («Israele quando si fermerà?
Quando assassinerà 33 palestinesi per ogni vittima israeliana? Una rappresaglia come le Fosse Ardeatine al contrario?»); e il secondo, stupratore di donne e decapitatore di infanti, gruppo terrorista riconosciuto dalla comunità internazionale, a una specie di Robin Hood.
AI TEMPI DELL’ ISIS Se i mostri dell’Isis in fondo avevano le loro ragioni, figuriamoci quelli di Hamas, bravissimi nell’innestare la loro ansia di genocidio nella vischiosità della questione ebraico-palestinese.
Insomma era scontato che il Mullah Dibba, in questo frangente, si mostrasse in modalità antisemita - inviperito, paonazzo, vena pulsante al collo, astio tra i denti - e in un atteggiamento meno affabile di quanto lo si vedeva, per dire, in versione falegname, pizzaiolo, cacciatore di granchi con famiglia in Guatemala, reportagista per Il Fatto Quotidiano, autista d’utilitaria con Di Maio alla volta delle scampagnate coi gilet gialli. Invitare il Dibba a commentare la Striscia di Gaza, era come invitare Giovanardi a un simposio abortista, o Alessandro Orsini a un convegno di patrioti ucraini. Sai che c’è la bomba sotto il tavolo ma non sai quando esploderà. E ci sta. Però, mai avremmo immaginato lo scatto successivo: l’islamizzazione dell’intervento di Ale, l’ariete del profeta.
Perché è questa la notizia: la prolusione a uso di telecamera del Dibba è stata griffata da titolo rosso e giallo, sottotitolata in arabo e trasmessa in tutto il mondo islamico tv e web. Laddove si sottolineavano proprio le parole che Hamas voleva sentire: «Vergognatevi! Perché state in silenzio su Gaza?». E il commento, rimpallato in tutti i social era scontato: «Finalmente un politico italiano che dice la verità»; anche se Dibba, «politico italiano» non lo è più da mo’. E anche se nello spot filo-Hamas viene tagliata la parte in cui Dibba, onestamente, condanna l’attacco terroristico. La sostanza è che la rabbia dell’ex CinqueStelle ha fatto il giro del mondo; su un account TikTok da 210mila followers, i «like» sono diventati 972mila in poche ore. Dibba, in tutto ciò, è stato bravo. Nella santa guerrilla di Allah gli si intesterebbe perizia di “Taqiyya”, intesa come arte della dissimulazione, del «rovesciamento delle responsabilità» nello spostare il discorso dal punto principale.
E il punto principale era sempre l’eccidio dei civili israeliani del 7 ottobre. Che qui s’è trasformato nell’accusa al governo di «americanismo», con annessa citazione nostalgica -fantastico!- di quando c’erano «Aldo Moro, Andreotti e Berlinguer al cui funerale venne Arafat». Il succo del discorso s’è mutato, perfino, nell’attacco a Netanyahu (la cui politica non è esente da colpe) e nello scarico delle stesse colpe sulle spalle di Israele. Dibba, in video, era una maschera di livore. E, ad ascoltare le invocazioni del Mullah, gli altri ospiti erano basiti. Italo Bocchino, dalla gioventù filoisraeliano, gli ricordava le elementari regole democratiche contro il furore ideologico; David Parenzo insisteva sulla necessità di «chiamare un’ambulanza». Hamas, Hezbollah, i compagni d’ira e d’Iran probabilmente ancora applaudono.
Per i giovani gretini che sfilavano a Roma al grido «Lasciateci uccidere Israele» probabilmente Dibba è al livello di Fedez e Sfera Ebbasta.
BACINO D’UTENZA Dibba, dal suo punto di vista, ha ragione. Non si sa ancora come campi e che mestiere faccia di preciso, né chi rappresenti; eppure, dimostra di attingere a un bacino di pubblico finanche internazionale che i suoi ex amici M5S se lo sognano. Vincenzo De Luca lo definisce uno «che si è trovato in un ruolo nazionale senza saper fare la “O” col bicchiere». Eppure il bicchiere del Dibba sta dissetando la parte antioccidentale del mondo. Che dentro ci sia odio o verità, in fondo non è molto importante.

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