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Caro Davigo, la gogna tv fa male perfino a lei

Perché, per non incrinare la sua autorevole credibilità l'ex toga di mani Pulite dovrebbe evitare la televisione (almeno fino a sentenza definitiva...)

Francesco Specchia
Francesco Specchia

Francesco Specchia, fiorentino di nascita, veronese d'adozione, ha una laurea in legge, una specializzazione in comunicazioni di massa e una antropologia criminale (ma non gli sono servite a nulla); a Libero si occupa prevalentemente di politica, tv e mass media. Si vanta di aver lavorato, tra gli altri, per Indro Montanelli alla Voce e per Albino Longhi all'Arena di Verona. Collabora con il TgCom e Radio Monte Carlo, ha scritto e condotto programmi televisivi, tra cui i talk show politici "Iceberg", "Alias" con Franco Debenedetti e "Versus", primo esperimento di talk show interattivo con i social network. Vive una perenne e macerante schizofrenia: ha lavorato per la satira e scritto vari saggi tra cui "Diario inedito del Grande Fratello" (Gremese) e "Gli Inaffondabili" (Marsilio), "Giulio Andreotti-Parola di Giulio" (Aliberti), ed è direttore della collana Mediamursia. Tifa Fiorentina, e non è mai riuscito ad entrare in una lobby, che fosse una...

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Davigo e Formigli a Piazzapulita Foto: Davigo e Formigli a Piazzapulita
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C’è una sorta di nemesi biblica che dovrebbe insufflare, nella raffinatissima mente giuridica di Piercamillo Davigo, il germe del dubbio. 

Perché andare in televisione a farsi del male?

Dubbio che dovrebbe assalire il magistrato ogni volta –e le volte sono tante- in cui si presenta nei talk show a fornire il proprio contributo su riforma della giustizia, terzietà dei pm e processi sulla cresta dell’onda, tipo quello sulla Loggia Ungheria. Ovvero il processo in cui egli stesso risulta condannato in primo grado, colpevole secondo il tribunale di aver addirittura «smarrito la postura istituzionale»: per un servitore dello Stato la peggiore delle infamie. Ecco: noi siamo contenti che -ora che il condannato è lui- che il magistrato fieramente giustizialista, l’uomo per cui non esistevano «innocenti ma colpevoli ancora da scoprire», oggi appaia convertito a un’idea garantista del mondo. Siamo felici che Davigo, come ha fatto a La7, prima a Otto e mezzo, poi a Piazzapulita, poi a DiMartedì, invochi ora l’articolo 27 della Costituzione. La presunzione di non colpevolezza, un tempo da lui ritenuta  una sorta di eczema della giustizia. Certo, è  vero che la condanna della toga a un anno e tre mesi per rivelazione del segreto d’ufficio è soggetta a ricorso e che l’ordinamento per condannare definitivamente richiede tre gradi di giudizio. Ed è una grande conquista per noi garantisti, il fatto che proprio Davigo la rimarchi.

Però esiste anche una dimensione televisiva. Che oramai spinge ogni interlocutore di Davigo ospite nei talk a opporgli sempre quella sua prima condanna che è un po' la lettera scarlatta. Il peccato originale. Funziona così. Davigo davanti alla telecamera comincia a prodursi nei suoi monologhi da toga arcigna e –sbem!- gli arriva subito la palata nei denti: «Dottor Davigo, lei è un condannato: per i suoi parametri non dovrebbe parlare…». E si capisce che, da quel momento, ogni tentativo del magistrato, di risalire la china dialettica risulti vana, e  finisca per schiantarsi contro la realtà. Poi metteteci anche altre perle. Tipo Davigo che, sempre da Floris aveva affermato che il collega Francesco Greco avesse violato la legge (e invece è stato archiviato). Tra l’altro, nello spettatore la timida asprezza di Davigo televisivamente viene presa per arroganza.

Le frequenti sortite di Davigo in tv non ispirano propriamente le notti nel rimorso dell’Innominato. Consiglio non richiesto per il nostro magistrato preferito: caro dottore, dottore, lo dico per lei, si autobandisca dal video, almeno fino alla sentenza definitiva.

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