La grande palingenesi (nostra e) del Grande Fratello
Iniziò tutto con Taricone. Modificò la tv (e noi stessi cronisti condannati a guardarlo)
Il Grande Fratello? Be’, è qualcosa di più di un’ordalia barbarica e qualcosa di meno di una citazione orwelliana.
Trattasi della naturale evoluzione del Panopticon, del carcere ideale progettato dal filosofo e giurista Jeremy Bentham, laddove s’intravvedeva un sorvegliante al controllo di galeotti ignari; nel solco di Argo, il gigante dai cento occhi della mitologia greca. Dunque, il Grande Fratello consiste in un voyeurista benedetto dagli dei che osserva una moltitudine – di certo colpevole di qualcosa- fondamentalmente indaffarata a non fare una mazza, e pagata per farlo. Che poi l’Argo, oggi, s’identifichi con lo sguardo perculante di Alfonso Signorini poco importa. La suddetta citazione dotta resta la mia scusante intellettuale per giustificare l’immenso Barnun del Grande Fratello televisivo, vincitore dell’ennesima serata tv con 2.994mila spettatori pari al 23,01%.
Certe volte, per accentuare il coté sociologico del programma - che nell’intimo ritengo latore di un’orchite invincibile - me la tiro: cito i sociologi Michel Foucault, René Schérer, e Zygmunt Bauman. E quando li cito, c’è sempre qualcuno tra i miei interlocutori, a ricordarmi che Bauman era in finale con Sabrina Mbarek vincitrice dell’edizione 2011; o che Foucault si fidanzò con Jonathan Kashanian nella quinta edizione, prima di andare all’Isola dei famosi.
STRANA DIPENDENZA Evidentemente, sono ricordi un po’ sfocati. Capita, d’altronde, quando un format televisivo accompagna senza soluzione di continuità la tua vita per ventitré anni. Io non seguo il Gfda secoli: l’ho preso come un impegno a metà tra il digiuno intermittente e le riunioni degli alcolisti anonimi. Non ho più dipendenza da Gf esattamente dal 2000 quando, costretto da Vittorio Feltri agli esordi di Libero, venni crocefisso al desk 24 ore al giorno, le mollette applicate agli occhi tipo Arancia meccanica, a recensire il format. Le puntate esalavano uno spaesamento dal sapore sadomaso, nell’osservare Sergio l’“ottusangolo” che disegnava arabeschi nell’aria; o Lorenzo Battistello (oggi esperto di gastronomia in Spagna) che declamava ricette e discuteva di politica col compianto Pietro Taricone, quando Taricone non era impegnato sotto le lenzuola a sedurre la bagnina Cristina.
Fu, di sicuro, un esperimento invasivo. Ero davanti al televisore per tre mesi, solo contro l’ignoto, per commentare il nulla che farciva il palinsesto di Canale 5 di quel «grande esperimento sociale» importato dalla Endemol di John De Mol, genio televisivo del male. Il Gf era un format rivoluzionario inquartato in una seduta di psicanalisi. Lì dentro la gente, mangiava, dormiva, prendeva il sole, faceva sesso, certe volte si appendeva a discorsi senza meta.
Accanto a me, a commentare tutto, c’era il collega Luca D’Alessandro col quale scrivemmo il primo libro satirico sugli abitatori delle casa (Diario inedito del Grande Fratello, Gremese; il secondo lo firmarono Tommaso Labranca e Dea Verna). Il buon D’Alessandro, rimase talmente sconvolto da quell’esperienza, che si buttò in politica, s’iscrisse a Forza Italia e divenne deputato della Repubblica. Lo stesso sentiero professionale percorso, anni dopo, nel Movimento Cinque Stelle, da Rocco Casalino, un allampanato ingegnere elettronico nato in Germania, omosessuale, eversivo, ambiziosissimo che aveva sfidato a colpi di congiuntivo Marina La Rosa e Salvo il piazzaiolo; e, in seguito, bazzicato Lele Mora e incrociato le telecamere con Platinette e Vittorio Sgarbi. Ecco. Casalino diventato potente portavoce del presidente del Consiglio Conte avrebbe rappresentato plasticamente il punto di snodo. Il passaggio dalla “Casa” al Palazzo (Chigi) divenne il viatico impossibile tra l’irrealtà del reality e il populismo della politica; fu la finzione che - come in un pagina di Borges - s’innestava senza permesso nel nostro quotidiano.
Nel ventennio di mezzo, nell’alternarsi dei conduttori (Bignardi, D’Urso, Marcuzzi, Signorini), tra gli ospiti del format presi “dalla strada” e le rutilanti comparse del Grande Fratello Vip fino all’edizione 2023, è scivolata gran parte della società italiana. C’era tutto. L’ascesa e la caduta del berlusconismo, il prodismo e il renzismo, Letta #staisereno, i governi tecnici (il cagnolino di Monti veniva citato più volte tra quelle mura Ikea), la parabola di Fini, l’Italia dei Valori di Di Pietro e la penombra di Gentiloni, le fiamme dei Cinque Stelle e quelle di Draghi che risolve i problemi come lo Wolf di Tarantino. Il Gf si era insinuato nel tessuto stesso della nazione.
TRA ANDREOTTI E LETTA Ricordo che se ne parlava con Giulio Andreotti nei talk show di Luciano Rispoli. Rammento le mille puntate sulla sua fenomenologia del Maurizio Costanzo Show (Costanzo fu il primo a crederci veramente). Rievoco, con allegria, le disquisizioni sulla sceneggiatura perfettamente tarocca del programma, durante gli incontri tra televisionari nei Vedrò di Enrico Letta; ossia nei think tank trentini organizzati dal futuro presidente del Consiglio e segretario de Pd ad uso delle «miglior menti over 40 di quella generazione». I think tank passarono, il Grande Fratello rimase. E, nondimeno, donò al mondo perfino qualche talento, da Luca Argentero a Eleonora Daniele; e ne rivitalizzò qualche altro da Daniele Bossari a Samantha De Grenet. Poi venne la deriva trash con tanto di sesso, fiacchi scandali, provocazioni estenuate. Tutta roba spazzata via, fortunatamente dal “new deal” di Piersilvio Berlusconi all’insegna del «no influencer e no only fans». In una versione con “vip” degni del ruolo e di “nip”, gente comune che emerge dal passato, tipo macellai romani, operaie turniste, chef italo cinesi. Il che, nella sempiterna metafora politica, rispecchia un po’ la sobrietà del governo di centrodestra: niente fuochi d’artificio, trasgressioni o fughe in avanti. Il racconto d’una normalità che continua a fare i suoi ascolti e - direbbe Signorini - la sua porca figura...