Ma che c'azzecca il Papa col giornalismo?
Al Pontefice il prestigioso riconoscimento ideato da Biagi e Montanelli. Un grandissimo colpo mediatico, ma è lecito chiedersi: davvero non ci sono più bravi reporter? Al prossimo libro Francesco avrà lo Strega?
Così vale tutto. La prossima volta lo candideremo all’Oscar, allo Strega, al Pallone d’oro. Per un arabesco del destino, è stato proprio mio figlio dodicenne Gregorio Indro (proprio come Montanelli, padre fondatore, con Biagi e Bocca, dello storico riconoscimento del nostro settore) ad avvertire una nota stonata, un’increspatura nell’assegnazione del premio è Giornalismo al Papa. Attratto irresistibilmente da quel signore dall’italiano incerto in papalina retrattile e veste bianca che “somiglia un po’ a Stanlio di Stanlio e Ollio”, il mio piccolo aveva già applaudito Francesco nel fulgore mediatico della storica intervista a Fabio Fazio a Che Tempo che fa. Allora Sua Santità aveva evocato i migranti, la guerra, il Covid, il clericalismo; e quando, quasi abbracciando la telecamera, aveva confessato «di aver ballato il tango», be’, lì Gregorio Indro, che di solito dedica più di dieci minuti della sua attenzione solo ai concerti dei Kiss e alle partite del Milan, si fermò e sorrise: «Figo, però...». Invece, stavolta è stato diverso.
MACINA DA MULINO Il Pontefice riceveva nel palazzo Apostolico vaticano la delegazione del Premio inventato da quel geniaccio di Giancarlo Aneri; e spiegava che la responsabilità del giornalista verso la veridicità delle notizie è la stessa della macina da mulino «mossa dall’acqua, non può essere fermata.
Chi è incaricato del mulino ha la possibilità di decidere se macinarvi grano o zizzania. La mente dell’uomo è sempre in azione e non può cessare di macinare». E continuava Bergoglio che «la disinformazione è il primo dei peccati del giornalismo», auspicando che «si torni a coltivare sempre più il principio di realtà: la realtà dei fatti, il dinamismo dei fatti che mai sono immobili e sempre si evolvono, verso il bene o verso il male, per non correre il rischio che la società dell’informazione si trasformi nella società della disinformazione».
I reportage delle principali agenzie dal web ieri erano illuminanti. Ecco la delegazione e la giuria del premio – presenti i vecchi volponi Anselmi, Riotta e Stella- nella photo opportunity, petto gonfio d’orgoglio per (ammettiamolo) il colpaccio mediatico.
Ed ecco il Papa che, con affaticato sorriso, fingeva d’inchinarsi ai maestri cronisti; e lanciava moniti come saette all’informazione perfetta. Alché, ecco che mio figlio interrompeva la liturgia: «Papà scusa, ma il Papa è giornalista?». No, Greg, non è giornalista. «Papà, ma ha scritto articoli, reportage, inchieste?». No, non mi risulta, però ha scritto l’Enciclica Laudato sii, e l’ha pubblicata l’Osservatore Romano, ma non so se vale. «Papà, ma ha fatto talk show, ha letto nei telegiornali?». No, anzi, credo che la tv tenda ad evitarla. E lui, implacabile: «Ma, Papà, scusa, se non è giornalista, non scrive sui giornali, non ha programmi televisivi, perché cacchio gli hanno dato un premio di giornalismo?». E lì, pietrificato, non sono riuscito a rispondergli.
Già, che c’azzecca il successore di Pietro col nostro mestieraccio?
MOTIVAZIONI UFFICIALI A dire il vero, gli ho blandamente opposto la motivazione ufficiale. Tirando fuori la «scelta inedita del Premio che si inquadra perfettamente in quello che era l’obiettivo che si erano posti Indro Montanelli, Enzo Biagi, Giorgio Bocca e Giancarlo Aneri, quando fondarono il Premio nel 1995: aiutare il giornalismo a essere più consapevole del suo ruolo di libera espressione e di contributo alla costruzione della giustizia attraverso il servizio alla verità». L’erede mi guardava con compatimento: «Papà, dai...». L’imbarazzo si tagliava. Greg, hanno dato il premio al Pontefice perché «Papa Francesco interpreta il coraggio di usare il dialogo per dire parola di pace». «Pa’, ma allora vuol dire che non ci sono giornalisti che parlano di pace?...». Be’, dio, no, che c’entra. «Cioè, papà vuol dire che se il Papa commenta le partite del Boca Juniors, gli danno il Pallone d’oro? O se fa un film gli danno l’Oscar?...». In quel mentre io, paonazzo, balbettavo qualcosa e gli ricordavo che l’anno scorso è Giornalismo era andato a Fiorello («Peggio ancora...», la sua risposta). Mi tornava in mente quel che Ennio Flaiano pensava della fragilità dei premi di lunga gittata. E, con la scusa di andare in cantina a stappare un Prosecco Aneri, be’, riflettevo sulla grandezza di Francesco, in grado di sfruttare tutti i mezzi, anche un premio del genere per diffondere la missione pastorale. Epperò, oggi mi pongo due domande. Anzi tre. La prima.
Possibile che non ci fossero in giro ottimi cronisti da premiare, davvero abbiamo finito i giornalisti bravi? La seconda. Dopo avere premiato il Papa, dove si porterà l’asticella del marketing: ai Premi Nobel, ai capi di Stato, ai fisici quantistici che hanno scritto almeno un pezzullo nella vita purché famosi? La terza domanda è la più ficcante: quando Gregorio Indro la smetterà di prendere così sul serio il suo nome, per buttarsi, finalmente, sulla Playstation?