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Storia di Silvio, il Televisionario

Gli scantinati, gli spot, il “Drive In” e Raimondo Vianello Così il Berlusca ha sfidato la Rai e cambiato tutte le regole del gioco del piccolo schermo

Francesco Specchia
Francesco Specchia

Francesco Specchia, fiorentino di nascita, veronese d'adozione, ha una laurea in legge, una specializzazione in comunicazioni di massa e una antropologia criminale (ma non gli sono servite a nulla); a Libero si occupa prevalentemente di politica, tv e mass media. Si vanta di aver lavorato, tra gli altri, per Indro Montanelli alla Voce e per Albino Longhi all'Arena di Verona. Collabora con il TgCom e Radio Monte Carlo, ha scritto e condotto programmi televisivi, tra cui i talk show politici "Iceberg", "Alias" con Franco Debenedetti e "Versus", primo esperimento di talk show interattivo con i social network. Vive una perenne e macerante schizofrenia: ha lavorato per la satira e scritto vari saggi tra cui "Diario inedito del Grande Fratello" (Gremese) e "Gli Inaffondabili" (Marsilio), "Giulio Andreotti-Parola di Giulio" (Aliberti), ed è direttore della collana Mediamursia. Tifa Fiorentina, e non è mai riuscito ad entrare in una lobby, che fosse una...

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Silvio Berlusconi, il televisionario Foto: Silvio Berlusconi, il televisionario
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La chiave di volta non fu Maurizio Costanzo, impegnato in maratone tv che trasudavano petizioni e impegno civico. Nè Dallas, nè il cane Has Fidanken del Drive In. Neanche Mike Bongiorno adorato da Publitalia quando invocava agli dei del marketing i prosciutti Rovagnati.
No. La chiave di volta fu Raimondo Vianello.
Raimondo era da sempre percepito come un eroe imperscrutabile di Wodehouse. E accadde che, nel momento stesso in cui l’impassibile Vianello e l’impossibile Mondaini si schierarono in diretta per la candidatura politica di Silvio Berlusconi (oltre alla Zanicchi, Corrado, Teocoli), be’, lì si sentì il “clic”. Lo scatto evolutivo del piccolo schermo. Craxi, prima ancora, aveva bloccato il decreto che consentiva a Canale 5 nata nel 1979 negli scantinati di TeleMilano di sfruttare le finte dirette e di proporsi come alternativa privata al servizio pubblico.

SPAZI PUBBLICITARI E, dopo, appunto arrivò l’autorevolezza di Vianello - il televisivo più intelligente sulla piazza- a legittimare la nuova, commerciale, “altra” tv italiana. Una tv fatta di format adattati agli spot, e al meccanismo dell’over commission sugli spazi pubblicitari, e al product placement prima ancora che il product placement fosse inventato. Sino ad allora, l’immaginario dei telespettatori aveva visto scorrere soltanto la Rai monopolista adagiata sui propri vecchi successi – dai teleromanzi alle grandi inchieste ai vari epigoni di Canzonissima -; ma da quella Rai, in un paio di decenni, gli autori e i dirigenti “corsari” avrebbero veleggiato per altri lidi.
Mentre, al fuori di quel recinto, galleggiavano solo qualche syndication locale, i brasiliani di TeleMontecarlo e gli ultimi strascichi di Tv Koper Capodistria. Poca roba.
Sicché, il «piccolo parvenu arcoriano» (a detta dei dirigenti pubblici che lo snobbavano) sfruttò quella vacatio creativa. E, dopo essersi pappato Italia1 nell’82 e Rete4 nell’84, Silvio realizzò che la conquista del pubblico si poteva ottenere apparecchiando una televisione diretta e divertita, che può «andare bene per uno spettatore medio di 12 anni», diceva. Si definiva così il duopolio Mediaset-Rai; con la prima che si buttava sui 15/54enni, il “pubblico attivo”, il target commerciale ben spendente; e la seconda sul resto, dagli over 60 in su, il “pubblico passivo” che, detto così, suona malissimo. Sono state scritte decine di saggi sulla “berlusconizzazione” dei palinsesti fatta di intrattenimento ultrapop, soap opera brasiliane, primi piani di vallette poppute e prugini sparse, telefilm americani (primo a selezionarli fu Giorgio Gori). E molti di questi saggi evocano i condizionamenti da Grande Fratello che poi Berlusconi importerà davvero in Italia. Gli stessi saggi citano la fabbrica del consenso di Chomsky; la telecamere rivestite con calza davanti alla scrivania; il “contratto con gli italiani” siglato da Bruno Vespa; i quizzarelli di mezza sera; il deprecabile virilismo machista che disprezzava il “corpo delle donne” come diceva la sociologa Lorella Zanardo esaltata a sinistra.
Tutto questo sarebbe servito a contrassegnare la «tele nelle spire del Biscione»; e costruita su illusioni aspirazionali, sul trash, sulla sfida vincente con la diretta avversaria Rai soprattutto dal punto di vista della raccolta pubblicitaria (Mediaset, peraltro, ancora vi eccelle). Ci fu davvero un momento in cui un sussurro di Gerry Scotti valeva più di cento editoriali di Paolo Mieli.
Almeno questa era la vulgata degli oppositori. I quali oppositori votavano nell’urna Veltroni e Prodi, ascoltavano Radio 3 e ritenevano che i programmi del populismo berlusconiano come il Costanzo Show, Non è la Rai, il Karaoke avessero il senso del transeunte. E un po’ era vero.
Ma di quegli stessi programmi non avevano valutato bene la portata.
Perché venne l’ora del passaggio di testimone: Silvio benedisse il figlio Piersilvio come nuovo tycoon.
E, a quel punto, non solo aumentarono i talk politici firmati Enrico Mentana (poi migrato a La7), Paolo Del Debbio, Nicola Porro o Mario Giordano.
Ma pure gli indici di ascolto e, assieme a loro, i talk di intrattenimento - con Maria De Filippi, le Barbare d’Urso e Palombelli - resero l’idea di una tv privata sempre più giornalistica, e soprattutto gratuita. E il tempo, e i semiologi e le antologie stesse della televisione, oggi, hanno rivalutato il carattere di quella tv cucita su anime allo sbaraglio, che fossero sul palco della Ruota della fortuna, di Pressing, o della Corrida di Corrado.

GRIMALDELLO POLITICO La tv fu per il Berlusca un grimaldello politico? Può essere. Ma le analisi postume valgono quel che valgono. Nella critica al Drive In, trent’anni fa, si citava Gramsci e non il push up delle veline. Eppure con quel push up Silvio narcotizzò le masse. Nella poetica del grande televisionario, è essenziale l’occhio al dettaglio... 

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