E continuavano a richiamarlo Trinità...
Terence Hill, evergreen della tv passa da Don Matteo a ritorno del nostro pistolero preferito che incontra Billy The Kid. Che è un po' come Spiderman che incontra Superman
L’unica difficoltà potrebbe essere un’artrite indelicata. Si tratta di capire, stavolta, se a scricchiolare sarebbe ancora la lettiga lentamente inghiottita dal ronzino nella prateria polverosa; o la schiena del vecchio cowboy sdraiata su quelle assi. Per il resto il sequel, dopo mezzo secolo, di Lo chiamavano Trinità – con un Terence Hill acerbo 84enne che torna in pista, è una notizia che ti apre il cuore.
La dà il settimanale 7 del Corriere della sera.
Che intervista Mario Girotti in arte Terence Hill scavando nella nostalgia come se il cronista fosse quello dell’Uomo che uccise Liberty Valance di John Ford, con un Hill evocativo che potrebbe entrare nei panni sia di John Wayne che di Jimmy Stewart. Ed ecco che il nostro eroe, deposta la tonaca di Don Matteo, annuncia di essersi appassionato alla «storia vera di una suora italiana emigrata a fine '800 in America con la sua famiglia contadina e poverissima e che da Cincinnati che ha deciso di andare nel selvaggio west». Voilà. Ed ecco, riemergere dalle nebbie del tempo, un Trinità un po’ attempatello, ossia Terence nel suo ruolo immortale.
«Il film si apre così» si legge in un passaggio dell'intervista «si vede Trinità sulla sua famosa lettiga e poi lei, la suora, circondata da tre minacciosi cowboy. Lui capisce che è in pericolo e la salva da quei tre. Da qui comincia la storia che si intitola Trinità, la suora e la Pistola. Dove la Pistola è Billy the Kid perché lei nella sua vita incontrò davvero Billy the Kid. La suora nel film si chiama Blandina. Il vero nome era Rosa Marai Segale». Sicché, come nei fumetti di Tex Willer, Trinità «la mano destra del diavolo» (Bambino/Bud Spencer, il fratello, era «la mano sinistra»), la realtà del selvaggio west fatto da mandriani e assassini feroci trasfigurati nella leggenda, s’imbastardisce con personaggi di fantasia.
Trinità contro Billy The Kid è come Superman contro Spiderman, Ercole contro Zorro: un clangore d’immaginario.
Naturalmente, l’annuncio si diffonde a macchia d’olio nei social. I profili dei fan di Spencer e Hill s’infiammano, i commenti s’infittiscono.
E il bello che lì scopri quanto Trinità –come i film di Totò e Don Camillo- attraversano sogni e diletto di cinque generazioni di lettori. Il mio primo film in assoluto fu, appunto Lo chiamavano Trinità (anno 1970), a cui seguì Continuavano a chiamarlo Trinità, propinatomi da mio padre. I miei figli piccoli, a cinquant’anni di distanza, hanno imparato cinematograficamente a ridere con la scena di Mezcal («Questo non l’ho mai picchiato») capo dei ladroni messicani che incappa nei pugni di Bambino. E via con le battute esilaranti, tipo: «È il Signore che vi manda!», «No, siamo venuti da soli». E, à côté, la scena della padella di fagioli (Hill digiunò 36 ore per ingollarla in un unico piano-sequenza).
Trinità non è un film, è un’educazione sentimentale. E ho scoperto che è la stessa di cui si sono beati tutti i compagni dei miei figli, e i padri, e i nonni dei compagni dei miei figli. La storia dei due fuorilegge dai cazzotti buoni e dall’etica profonda era roba semplice. Era Guareschi che si arma di Colt 45 e s’appunta sul petto una stella di sceriffo. E poco conta che sia pure stata uno dei più grandi incassi del cinema italiano d’ogni tempo.
Ora, Trinità ritorna, girato –pare- tra le piane e le montagne d’Abruzzo; e come dice Terence evoca valori come la libertà, l’onesta, il senso del dovere e il rispetto per l’altro anche per il nemico nell’archiettura scenica di Sergio Leone. Ci mancherà Bud, pace all’anima sua. Dio ci preservi Terence Hill. L’ultima volta in tv l’ho visto da Fabio Fazio a Che tempo che fa. Terence raccontò l’esordio delle scazzottate sul set con Bud. Non fu loquacissimo. Eppure ogni sua frase, sguardo, sorriso in tralice era un sospiro di tenerezza...