Tutti contro Lidia Poët
La fiction Netflix di successo planetario in Italia subisce attacchi continui. Eppure ha il fascino di Lidia Ravera che legge Agahta Christie...
Se fossi in Elly Schlein, in Laura Boldrini, in Luciana Littizzetto, nel coro delle femministe italiane, perfino nel Pd in blocco be’, io m’inalbererei assai per il trattamento ignobile a cui, in questi giorni, viene sottoposta Lidia Poët delle grandi pioniere dei nostri diritti civili.
Da quando spicca al terzo posto nella classifica planetaria delle serie Netflix, La legge di Lidia Poët, incentratea sulle avventure poliziesche della “prima avvocata d’Italia” (a me viene ancora da chiamarle “avvocatesse”) nella Torino dell’800, be, la povera Lidia prende sberle da chiunque. Prima dai parenti, con gli ultimi eredi, Marilena Jahier Togliatto e Valdo Poët che bocciano la serie “con sdegno” dopo averne vista soltanto una puntata su sei o senza neanche averla, “mi sono bastati i racconti”: troppo spinta, troppo sexy la protagonista, troppe parolacce e musica pop in sottofondo, troppissimo romanzata. Poi ecco che contro la Lidia insorgono l’assessore alla Legalità e la polizia locale del Comune di Trani, pronti a giurare che la prima iscritta all’Albo degli Avvocati era stata Giustina Rocca, fine ‘400, che ispirò il personaggio di Porzia nel Mercante di Venezia. Poi arriva la comunità valdese, incazzatissima perché la fiction non terrebbe conto dell’aspetto religioso della vita della donna. Che, tra l’altro –dicono i valdesi- non abitava a Torino ma a Pinerolo, e il fratello non era affatto sposato e Lidia stessa era “elegante e riservatissima” e mai e poi mai avrebbe fornicato in un affollato poliamore nel quale si esprime alla grande la Lidia televisiva, Matilda De Angelis tra l’altro brava quanto bella. E, tanto per non farci mancare nulla, arriva nel finale la mazzata del principe dei critici tv, Aldo Grasso; il quale, con distacco sabaudo, della serie apprezza i costumi, le scenografie e le location molto torinesi; però non vi coglie, nel complesso, traccia di scrittura creativa. Quando, invece, per il resto della critica, specie nel crescendo del racconto, è proprio nella scrittura che brilla il successo di Lidia.
Eppure Lidia Poët è un prodottino perfetto per il nostro export cinematografico. Certo, è girato con una strizzatina d’occhio al sesso e alla tensione erotica finanche in una scena che ricorda perfino Eyes Wide Shut; e colpisce per il linguaggio ipercontemporaneo, anche se, rispetto a un “cazzo” come interlocuzione di stizza e un tappetto musicale di hard rock, abbiamo visto di molto peggio). E, certo, sviluppa l’indagine deduttiva come fosse un episodio di Enola Holmes, o della Signora in giallo. Ma ogni sua avventura si trasforma in due generi. Il primo è il giallo che Lidia attraversa con disinvoltura facendo da spalla al fratello avvocato Enrico, dato che la Corte d’Appello di Torino le aveva tolto davvero il titolo per pura misoginia. E qui, ecco svelare misteri legati a scienziati che compiono esperimenti radioattivi sulle donne; a giovani ragazzi oppiomani fregati dai fratelli; ad anarchici francesi che intendono far saltare treni e città. Il secondo genere, invece, è il melò striato di diritti civili. La Lidia è un’eroina in lotta col suo tempo, fallibile ed empatica al tempo stesso. Piange più lei che la pastorella frignona dei racconti di Heidi. Ma la sua causa diventa quella di una generazione di suffragette in lotta per il voto e l’uguaglianza con gli uomini, anche se Lidia odiava le suffragette perditempo. Lidia Poët, con tutta la sua corte di personaggi maschi in cerca d’autore – il fratello, il procuratore presuntuoso, il giornaliste e il commerciante che si alternano nel suo letto - diventa così un’autentica icona della potenza femminile e della lotta al pregiudizio. E non è più Lidia Poët, è Lidia Ravera che legge Agatha Christie.
E ci fosse una scrittrice, una politica, un’intellettuale, una giornalista che abbiano provato a difenderla e fomentare la sua potenza femminista, a sostenere la sua svolta culturale. Nel finale della serie Lidia, persa la sua difesa dei diritti delle donne (ma il suo impegno vinse successivamente, nel 1919, con la Legge Sacchi) e in procinto di abbandonare Torino alla volta dei più liberi Stati Uniti d’America, la nostra eroina si gira verso una folla che ne osanna il coraggio. Non si capisce se l’avvocata voglia tornare indietro all’improvviso, o solo salutare la folla dei suoi fan. Comunque sia, non credo che nessuno di loro abbia votato Pd…