Rai, se Viale Mazzini si ritira dalla Russia e schiaffeggia lo zar Vladimir Putin
«Giornalismo è diffondere ciò che qualcuno non vuole si sappia, il resto è propaganda». Quando, nel 1997, Horacio Verbitsky nel suo libro Un mundo sin periodistas - Un mondo senza giornalisti, descrisse l’essenza stessa di questo estenuato mestiere, Putin iniziava la sua inarrestabile scalata al potere attraverso colpetti astuti e calibrati di propaganda contro la libertà d’espressione,
Riempie d’un certo orgoglio che oggi, un quarto di secolo dopo, davanti alla legittimazione russa della censura totale, la Rai volti le spalle all’autocrate, e ritiri i propri giornalisti dal fronte ucraino. Non è una resa burocratica, né un atto di vigliaccheria. Tutt’altro. È più uno scatto d’orgoglio contro la nuova normativa putiniana che prevede multe possenti e fino a 15 anni di carcere per chi diffonde “informazioni false sull’esercito” o “lesive dell’interesse russo”. In pratica, sul modello cinese, qualsiasi forma di diniego al governo verrà spenta e messa ai ceppi.
Da Viale Mazzini l’ad Carlo Fuortes è scattato in un riflesso pavloviano. E, piuttosto che trasformare i propri 4 inviati e 2 corrispondenti in appecoronati latori di veline dal Cremlino, ha preferito ritirarli, data l’impossibilità di esercitare dignitosamente il mestiere. Spiega la Rai in uno scarno comunicato: «In seguito all’approvazione della normativa che prevede forti pene detentive per la pubblicazione di notizie ritenute false dalle autorità, a partire da oggi la Rai sospende i servizi giornalistici dei propri inviati e corrispondenti dalla Federazione Russa. La misura si rende necessaria al fine di tutelare la sicurezza dei giornalisti sul posto e la massima libertà nell’informazione relativa al Paese. Le notizie su quanto accade nella Federazione Russa verranno per il momento fornite sulla base di una pluralità di fonti da giornalisti dell’Azienda in servizio in Paesi vicini e nelle redazioni centrali in Italia». Come dire: Putin non ci può tappare la bocca, sicché noi lo lasciamo a imbrodarsi, da solo, come un Riccardo III° shakespeariano nel lago di sangue di Bosworth, tra i partigiani della sua informazione e i fantasmi delle vittime della sua follia.
Gli inviati Rai hanno quindi varcato a ritroso i confini; i corrispondenti, come il controverso Marc Innaro accusato in questi giorni di eccessi putiniani, dovranno decidere se lasciare la Russia o mettersi in ferie. Comunque sia la libera stampa –come la Nato, come l’Europa- ha oggi la propria rivincita. E si coagula tutta contro la «criminalizzazione del giornalismo indipendente», come afferma Tim Davies direttore generale della mitica Bbc che si era defilata già qualche ora prima della Rai ripristinando il ritorno alla mitica trasmissione a onde corte della Radio Londra dei tempi bui degli assalti nazisti. Dopo la Rai, lasceranno i teatri di guerra, via via, a grappolo, le tv tedesche, Bloomberg, Abc, Cbs, la canadese Cbc. Anche Mediaset, attraverso le decisa presa di posizione del direttore del Tg5 Clemente J. Mimun, annuncia di ritirare l’inviato: «Siamo stati costretti. La Russia sta perdendo su più fronti. Sul terreno in Ucraina sta incontrando più difficoltà di quanto immaginasse. Sul piano economico ha già perso 300 miliardi di euro». Aperta parentesi. A fronte di questo, strappa un applauso la presenza inaspettata a Leopoli di Andrea Vianello neodirettore dei giornali di Radio Rai è tornato a macinare suola da scarpe come inviato al confine della Polonia. L'immagine di Andrea sul teatro di guerra, barba sfatta sotto il rombo dei mortai in lontananza, è significativa, specie considerando in fatto che il vecchio anchorman, non molto tempo fa, ebbe un ictus che per un po' lo privò della favella (non per nulla, Monica Maggioni, fresca direttrice del Tg1 e già presidente a Viale Mazzini, a vedere il collega, ha pianto).
Chiusa parentesi.
Ha comunque ragione Mimun quando afferma: «E su quello dei media Putin, sa quanto conti l’informazione, e quindi pone limitazioni. Credo pure che non tutti i russi sappiano quello che il loro governo sta combinando». Lo crediamo anche noi.
Ma forse quei russi continueranno a ignorarlo, considerando che milioni di loro si troveranno in balia della feroce propaganda del partito. Non è un caso che, per evitare la galera, la Novaya Gazeta -uno dei pochi giornali indipendenti russi, il cui direttore Dmitrij Muratov ha vinto nel 2021 il premio Nobel per la pace- annunci che cancellerà i contenuti sull’invasione dell’Ucraina, facendo intendere che interromperà la copertura delle operazioni militari.
Eppure, vibra una luce in questa enorme cappa di censura che avvolge luoghi, voci e notizie, che copre gli sguardi liberi, che talora ha spinto grandi testate verso le fake news (qualcuno ha usato immagini tarocche, della guerra del 2014, o quelle dei videogames). È la luce di una reazione, che scopre il lato oscuro di Putin. Il quale, in questa convulsa “guerra asimmetrica” fatta di hacker, fake, bugie spacciate per orgoglio della grande madre Russia, fatica a tenere il passo di Zelensky. Il presidente ucraino ex uomo di spettacolo comunica alla velocità della luce, smentisce le notizie russe coprendole con altre notizie, e viene supportato dai social della gente comune. La denuncia delle donne ucraine stuprate; l’arresto della vecchina che dimostrava al Cremlino reggendo a fatica i cartelli; la messa in gabbia dei bambini che lanciano fiori; lo zingaro che ruba un carrarmato dell’Armata Rossa: sono immagini che stanno facendo il giro del mondo e che svelano il volto del tiranno. Putin vuole spegnerle, non riuscendo più a rincorrerle. Il suo esilio dalla realtà inizia dall’esilio della libera stampa. (Ed è uno dei motivi per il quale lo stesso Putin in questo ore sta spegnendo Internet, che non è esattamente un gesto da persona salda...)