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"Monterossi-La serie", ovvero l'arte un po' noiosa del delitto

La fiction tratta dai romanzi di Robecchi è levigata, piena di spunto sociali (compresa una critica sotterranea di Barbara D'Urso). Ma è troppo lunga, e perde mordente

Francesco Specchia
Francesco Specchia

Francesco Specchia, fiorentino di nascita, veronese d'adozione, ha una laurea in legge, una specializzazione in comunicazioni di massa e una antropologia criminale (ma non gli sono servite a nulla); a Libero si occupa prevalentemente di politica, tv e mass media. Si vanta di aver lavorato, tra gli altri, per Indro Montanelli alla Voce e per Albino Longhi all'Arena di Verona. Collabora con il TgCom e Radio Monte Carlo, ha scritto e condotto programmi televisivi, tra cui i talk show politici "Iceberg", "Alias" con Franco Debenedetti e "Versus", primo esperimento di talk show interattivo con i social network. Vive una perenne e macerante schizofrenia: ha lavorato per la satira e scritto vari saggi tra cui "Diario inedito del Grande Fratello" (Gremese) e "Gli Inaffondabili" (Marsilio), "Giulio Andreotti-Parola di Giulio" (Aliberti), ed è direttore della collana Mediamursia. Tifa Fiorentina, e non è mai riuscito ad entrare in una lobby, che fosse una...

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Monterossi Foto: Monterossi
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Giorgio Scerbanenco che precipita in un programma di Barbara D’Urso, sciabattando, le borse sotto gli occhi divenute valigie e l’eterno bicchiere di whiskey in mano. Questo è Carlo Monterossi, protagonista di Monterossi- La serie tratta dai gialli di Alessandro Robecchi proposta in 6 puntate -troppo dilatate- da Amazon Prime. Abbiamo visto di peggio, ma anche di meglio.

Monterossi è in realtà un autore televisivo arricchitosi col trash (da qui Crazy Love, il suo programma “da 40% di share” interpretato da Carla Signoris, parodia fon troppo spudorata della D’Urso, appunto) che ripudia il suo passato ma non i suoi soldi e il suo stile di vita. Domiciliato nel centro di una Milano fighetta ma avvolta dalle caligini delittuose proprio dei romanzi di Scerbanenco, il protagonista è un Fabrizio Bentivoglio che si trascina in una vita lussuosa ma stropicciata. Finché un tizio che si diverte ad ammazzare gente centrandola in fronte con pallottole di piccolo calibro, tenta di ucciderlo fingendosi il postino. Monterossi si salva casualmente, tirandogli addosso il bicchiere di whisky. Poi sviene. Da lì -per quanto possibile- si scuoterà dal suo torpore alla Joyce attraverso piccoli lampi di curiosità e le canzoni e i pensieri nasali del suo idolo Bob Dylan; troverà in casa un dito mozzato oggetto di uno strano rituale omicida (“non mi piace l’idea di finire ammazzato con un dito altrui nel culo…”, dice alla polizia); e deciderà di improvvisarsi investigatore, aiutato da due suoi collaboratori della tv a 2000 euro al mese. Da questo momento ecco alternarsi una giostra di neonazisti, escort infide amiche di killer poi riabilitate, campi Rom, poliziotti ora umani come il sovrintendente Ghezzi che viene pestato vestito da frate ora disumani come il Carella, un sottoprodotto dei film di Monnezza. L’idea della serie è buona, ma la sua messa a terra è svogliata più del protagonista il quale, peraltro, dà sempre la sensazione di essere passato lì per caso, e non per colpa sua. Sicché, prima che si entri davvero nel vivo dell’azione, il torpore avvinghia pericolosamente la trama: e i dialoghi eterni, stiracchiati, e l’eccesso infruttuoso di satira sulla tv (c’è già stato Boris, prima…), e i personaggi bidimensionali. Tutto dà l’impressione di voler spalmare troppo le storie nel formato della serie Amazon, e non in quello delle miniserie Rai o Mediaset, molto più consono.

Bentivoglio naturalmente una spanna sopra tutti. Ma l’approssimazione una spanna sopra Bentivoglio. Una botta d’adrenalina sarebbe utile…

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