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Khaby Lame, il nostro Charlot vince il Premio Satira

Dal podio di primo tik toker del mondo al massimo riconoscimento umoristico da Forte di Marmi

Francesco Specchia
Francesco Specchia

Francesco Specchia, fiorentino di nascita, veronese d'adozione, ha una laurea in legge, una specializzazione in comunicazioni di massa e una antropologia criminale (ma non gli sono servite a nulla); a Libero si occupa prevalentemente di politica, tv e mass media. Si vanta di aver lavorato, tra gli altri, per Indro Montanelli alla Voce e per Albino Longhi all'Arena di Verona. Collabora con il TgCom e Radio Monte Carlo, ha scritto e condotto programmi televisivi, tra cui i talk show politici "Iceberg", "Alias" con Franco Debenedetti e "Versus", primo esperimento di talk show interattivo con i social network. Vive una perenne e macerante schizofrenia: ha lavorato per la satira e scritto vari saggi tra cui "Diario inedito del Grande Fratello" (Gremese) e "Gli Inaffondabili" (Marsilio), "Giulio Andreotti-Parola di Giulio" (Aliberti), ed è direttore della collana Mediamursia. Tifa Fiorentina, e non è mai riuscito ad entrare in una lobby, che fosse una...

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Khaby Lame Foto: Khaby Lame
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La solita espressione perculante, l’occhietto vispo e le palme delle mani rivolte biblicamente al pubblico come a dire «come fate a credere a queste sciocchezze?...». In questi giorni, dopo aver osservato la sua faccia dipinta su un murales di Gaza (e sulle pagine di tutti i giornali del mondo come esempio di un Italia integrata e cosmopolita), Khaby Lame riceverà il riconoscimento che più gli s’attaglia. Il Premio Satira di Forte dei Marmi.

Khaby, è una specie di Ronaldinho della risata, è il Tik toker più seguito d’Italia. Sia perché i suoi video muti fatti di finte e gesti sembrano quelli delle vecchie comiche degli anni 20, e divertono senza offese e senza chiasso; sia perché la sua stessa storia è un fantastico monito per i più giovani. Nato in Senegal il 9 marzo 2000, italiano di ultima generazione (cresciuto a Chivasso) vissuto nelle case popolari; dopo il licenziamento dalla fabbrica in lavorava da operaio, l’intraprendente Khaby, nei suoi primi dodici mesi da content creator, da creatore dei contenuti dei social, riesce ad accumulare più d’un milione di followers. Poi le sottoscrizioni iniziano ad aumentare vertiginosamente: 6 milioni, 14 milioni; oltre 20 milioni di nuovi fan in appena tre settimane. Khaby ora è il secondo tiktoker al mondo dopo il fenomeno Charli D’Amelio. Se si considera che ogni post-oltre i 5 milioni di seguaci- introita 15/60mila euro, si capirà che la sua vita da Oliver Twist tra sorrisi e marciapiedi, be’, ora è notevolmente ridimensionata. 

C’è, in tutto ciò, un elemento di bizzarria.  In un mondo -come quello degli influencer- attraversato da fiumi di parole perlopiù inutili Khaby è un’eccezione. Khaby non parla mai: sembra, appunto, Chaplin in tempi Moderni mentre scivola nella catena di montaggio di un business più grande di lui. Le sue sono comiche “video-reaction”;  con un’espressione sempre incredula, il ragazzo satireggia sui tutorial di cose inutili che intasano il web. La banana tagliata con il machete, i calzini inseriti con un macchinario che somiglia a una sedia ginecologica, il doppio mestolo ideato da un designer in stato alcolico: tutte le invenzioni più stupide del mondo vengono schiacciate dal candore di un silenzio eversivo e da un sorriso sornione alla Omar Sy (l’interprete televisivo di Lupin di cui Khaby sembra, tra l’altro, la versione adulta). Khaby inoltre, non si fa manipolare. Ha bloccato qualsiasi strumentalizzazione della sua condizione sullo ius soli; ha evitato di infilarsi nelle solite trite polemiche sui migranti; la sua intelligenza e simpatia hanno strappato perfino l’algida reazione di Mark Zuckerberg. Khaby Lame è coccolato da un algoritmo che intreccia i suoi sogni con i like dei fans, e li fa crescere -i like, i fan e i sogni- come un souflè. È un esempio atipico di “migrazione generazionale social”. L’idea che nell’Italia che tenta di rialzarsi venga premiata la sua abilità nel far sorridere ci rende un po’ più leggeri. E anche un po’ più fieri…

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