Se Massimo Galli va in pensione prima del Covid
L'annuncio in diretta su La7: "Lascio per motivi d'età". Merlino straziata per l'uomo che aveva ibridato la politica con la scienza
Gli ultimi giorni di Massimo Galli saranno cupi e cosparsi lapilli come gli ultimi giorni di Pompei. Ora che l’infettivologo ha dichiarato L’aria che tira, -ad una Myrta Merlino visibilmente straziata- di andare in pensione «il primo novembre, non vorrei ma compio 70 anni, così prevede la legge», be’, un velo di mestizia avvolgerà noi telespettatori. Perché, alla fine, va in pensione prima il Galli che il Covid (e non l’avremmo mai detto).
E perché, nel bailamme delle cronache intasate dal virus, dal vaccino, dal Green Pass, nel nostro quotidiano sfuggente, il Galli, Direttore del Dipartimento di Scienze Biomediche e Cliniche dell’Ospedale Sacco di Milano, si stagliava come unica certezza. Il professore, più di ogni altro, possiede il dono sciamanico dell’ubiquità televisiva. Sono due anni che tra La7 e la Rai, continuiamo ad osservarlo, perfino in ben tre/quattro talk show in contemporanea; e non dubitiamo che, nello stesso momento, il Galli facesse lezione all’università, o visitasse un paziente, o si avvinghiasse in un incontro di wrestling col collega Matteo Bassetti, (roba che ha titillato i cronisti politici: Galli il marxista contro Bassetti il reazionario). Ora che virologi, epidemiologi, infettivologi, in seconda battuta pneumologi si avvicinano a commentare le ennesime elezioni – dall’ottica sanitaria, naturalmente-, il Galli è diventato il simbolo della politica ibridata alla scienza. Perché Galli non fa politica, ma, facendo sé stesso, influenza la politica. Anche se i simpatici, diciamolo,sono diversi. Galli tratta gli interlocutori con l’insofferenza usata dai farmacisti con i rappresentati sanitari.
Selvaggia Lucarelli lo chiama «la Mara Maionchi dei virologi». Ha ragione. Sempre in camice e con la sua indomabile cravatta a pois, Galli, attraverso quei sorrisi increspati, assesta colpi di katana agli interlocutori che con lui hanno sempre la sensazione di aver detto una cazzata. Anche se magari sbaglia lui. Solo ieri, a Sky Tg24 il Galli ci lasciava con un «il ritorno a scuola darà dei problemi. Difficile pensare di non ricorrere alla Dad, con i trasporti pubblici ridotti in questo modo». E noi genitori, bile gonfia e sguardo al cielo, ci siamo tutti toccati; poi, fortunatamente le scuole italiane si sono mostrate più efficienti di quelle giapponesi.
Prima ancora il Galli aveva ammonito il premier Draghi sulle «riaperture in cambio di morti in più», facendo partire l’embolo a Bonacini. Riaperture senza danni e i morti in calo. Galli, quando compare non ha l’aria patibolare di un Crisanti che appena lo vedi evoca il predicatore di Troisi in Non ci resta che piangere, «ricordati che devi morire!» . Epperò, anche gli ottimisti sono diversi. Il suo allure mediatico l’ha reso, suo malgrado, un maître à penser trasversale. Dichiarò al Messagero sul campionato di calcio: «Capisco che togliere i circenses agli italiani possa dispiacere, ma dal punto di vista scientifico portare il pubblico negli impianti sportivi può avere gli stessi effetti che abbiamo visto nelle discoteche. Le scuole dobbiamo aprirle, non gli stadi». E, Conte regnante, chiese «l’unanimità di voto» sul Decreto chiudi- Italia (lui, il primo a prendere il Covid sottogamba); e, dopo ancora, parlò di danni dei contagi di Ferragosto superiori «a quelli dell’economia». Ferragosto è filato liscio e l’economia ripartita. Il mese prima ancora, riguardo al convegno anti-allarmista organizzato dalla Lega sul Coronavirus, era stato inappellabile: «Non ha alcuna base scientifica, è un messaggio pericoloso». Si poteva anche condividere. Ma era innegabile che il Galli, con quell’uscita, avesse invaso il campo di almeno quattro ministeri -sport, istruzione, interni, economia- e massacrato l’opposizione. Il Galli, ex sessantottino mai pentito poi, richiesto da Lilli Gruber di commentare se esistesse «un modo di sinistra e uno di destra di affrontare una pandemia», negò di volersi «infilare nell’agone della politica», dichiarandosi disponibile per il Festival di Sanremo. Ma credo che Lilli, ascoltandolo, avesse avuto la mia stessa impressione: mentre il prof parlava, assomigliava in modo impressionante a Cirino Pomicino nell’atto di accettare il ministero del Bilancio nel governo Andreotti VI. Era medico pure Pomicino. Il prof, ora, se ne va in pensione promettendo di «continuare a fare ricerca, non credo che andrò in obsolescenza totale».
Non lo crede nessuno…